PREVENZIONE – «Una cosa è certa – commenta Pierfranco Conte, professore all’Università di Padova e Direttore dell’Oncologia 2 dell’Istituto Oncologico Veneto Irccs -. Con gli screening sono aumentate enormemente le diagnosi di carcinoma mammario cosiddetto in situ: un tumore che non dà metastasi, ma che viene però trattato con la chirurgia e la radioterapia». Molti tumori, infatti, possono anche scomparire, ma una volta che vengono intercettati, è impossibile sapere se sono pericolosi oppure no e vengono curati comunque. Secondo molti esperti, però, non è ancora arrivato il momento di cancellare i programmi di prevenzione (nonostante lo si sia già fatto per un’altra neoplasia, quella della prostata, la cui diagnosi precoce viene fatta attraverso la misurazione del Psa, l’antigene prostatico specifico, nel sangue), ma sarebbe prima opportuno rivedere tutti gli studi finora condotti, compreso quello canadese. Che ha il merito di aver coinvolto 90mila donne e di essere durato 25 anni ed è finora il più ampio riportato dalla letteratura medica, ma che ha anche qualche limite.
SOPRAVVIVENZA – «I canadesi hanno scelto la sopravvivenza come parametro per valutare l’efficacia dello screening – spiega Francesco Di Costanzo, direttore dell’Oncologia nell’Azienda ospedaliera-universitaria Careggi di Firenze – ma probabilmente non è il migliore, soprattutto quando si misura su un lungo arco di tempo. Nel frattempo, infatti, possono intervenire altre malattie che possono portare a morte e confondono i dati. E poi bisogna considerare le macchine: un mammografo di 25 anni fa non è come uno di oggi: il potere diagnostico di questi strumenti è migliorato moltissimo». I dati canadesi, d’altra parte, fanno capire che è arrivato il momento di ripensare i modelli di screening e suggeriscono di tener conto non soltanto della loro efficacia, ma anche dei costi. «Intanto questi risultati dovrebbero scoraggiare certe fughe in avanti – continua Conte -. E cioè l’estensione dello screening: al di sotto dei 45 anni e al di sopra dei 70 non trova attualmente giustificazione». E poi la medicina sta cambiando rapidamente. Il tumore al seno non è una sola malattia, ma un insieme di malattie diverse da un punto di vista genetico, alcune più aggressive, altre indolenti, che hanno in comune solo il fatto di manifestarsi nello stesso organo: la mammella.
IDENTIKIT DEI RISCHI – Gli screening, invece, sono costruiti in base al presupposto che la malattia sia unica. Ecco perché anche gli interventi per la diagnosi precoce andrebbero «personalizzati», «tagliati» cioè sul singolo paziente, esattamente come sta avvenendo per la terapia. Allora: se una persona ha familiarità per il tumore, ha un determinato profilo ormonale, ha certe abitudini che riguardano anche la vita sessuale, va seguita in maniera più accurata con i test (che oggi non contano più soltanto sulla mammografia, ma anche sull’ecografia o sulla risonanza magnetica) rispetto a chi non ha tutte queste caratteristiche. «Un identikit dei rischi – dice Di Costanzo – può permettere di individuare le donne che devono essere seguite con più attenzione. Magari anche con un risparmio sui costi».