La cosa certa è la contrapposizione creatasi tra favorevoli e contrari all’accorpamento; in ogni bacino di mare relativo agli ottomila chilometri di costa italiana si lamenta almeno una eventuale e/o possibile integrazione fra porti: Savona a Genova, Salerno a Napoli, Brindisi e Taranto a Bari, Siracusa e Messina a Catania, Ravenna ad Ancona, ecc per giungere alle forse definitive 14 super autorità.
Una riforma di un settore produttivo è quasi obbligatoria quando si riscontra di non essere più competitivi a livello europeo e soprattutto a livello mondiale; non è chiaro però per la nostra UE (24 maggio voteremo per i nuovi rappresentanti) quando il Mediterraneo è un mare di “frontiera”, per cui i continui sbarchi di immigranti sulle nostre coste è un problema “italiano” e quando è un mare “europeo”, per cui si dettano i criteri per accorpare le AP sotto il paravento della competizione. In Europa i vari modelli di governance proposti sono molto eterogenei, con funzioni portuali quasi uguali, e non esiste un modello singolo vincente.
Invece, tutto quello che il mondo della portualità italiana chiede è la revisione dell’anomala composizione dei comitati portuali, rivedere i poteri del presidente, stabilizzare il rapporto con gli Enti locali per lo sviluppo delle infrastrutture, semplificare la burocrazia assurda per accedere all’approvazione dei un piano dei dragaggi di un porto, l’autonomia finanziaria e come sviluppare un piano di promozione e di marketing portuale più incisivo. La competitività di un porto è formulata da diverse variabili con matrici complesse, che vanno dalla posizione geografica alla economia per un armatore, dall’accoglienza sicura per navi e merci all’integrazione intermodale in chiave logistica, dagli ampi spazi di retro-portualità alla dislocazione industriale per filo di costa, e non certo per decreto di una Commissione UE o per legge.
La prima osservazione da fare è come una ipotetica “riforma” possa far crescere un mercato, come possa attrarre più traffici marittimi e come aumentare l’occupazione creando quel valore aggiunto al territorio di quella/quelle città-porto: cioè la riforma sulla portualità (che per ora è solo riduzione di AP) riuscirà a far attraccare una nave in più per quella banchina? O si spenderanno euro aggiuntivi per compensare l’armatore delle miglia percorse in più per attraccare in un porto, con servizi più o meno adeguati, e quindi incentivare quel porto rispetto ad un altro?
Sicuramente una modalità di trasporto non è uguale ad un’altra; vedasi a riguardo quella aerea e quella marittima, per cui <copiare> un “piano degli aeroporti” non è conformabile per <incollarlo> ad un “piano dei porti”. Qui, le contrapposizioni si allargano anche rispetto a categorie mentali come “nord- centro-sud-isole”. Per il Ministro è una riforma di organizzazione statale, di governance e non di governo; per il Pd si riforma tutto, con la parola chiave “più porti e meno authority”, per comprendere soprattutto il lavoro portuale, Compagnie portuali, concessioni e autonomia finanziaria; mentre i rappresentanti della mobilità di merci, cose e persone e le imprese vogliono garantite più flessibilità in tutte le operazioni di carico/scarico, stabilità del quadro normativo, sicurezza nelle concessioni per garantire investimenti.
La campagna elettorale è già iniziata, per cui tutto quello che si voleva cambiare sta nelle suggestioni teoriche: come non è facile preparare una pianificazione, progettazione ed esecuzione di un piano-porto con funzioni dedicate che fa parte di un altro super-porto che le vorrebbe supplire, con Comuni, Area Vasta, Regione e Stato da concertare. Credo che la concertazione e sinergia fra AP ha funzionato e funzionerà solo per le attività di promozione, su come valorizzare il ruolo della logistica in un sistema, su come sostenere nuove forme organizzative del lavoro; di sicuro non si può cancellare una identità marittima, una storia di navigazione e di porto a garanzia di un miglior servizio alla domanda di trasporto.
Fonte: ilnautilus
non rompete i …………….voi ed i vs interessi, tirate fuori un nome condiviso e senza indugio risparmiamo 200 milioni di euro