L’attore si racconta ai tantissimi giurati che vogliono sapere quanto il Gere attore sia vicino all’uomo: «Se trovate una somiglianza tra me e quel che racconto nei film è perché io cerco di fare sempre cose nelle quali mi ritrovo. Fare film per me è un lavoro e cerco di non tenere mai troppo diviso il lavoro dalla mia vita e dai miei valori». Al tradizionale entusiasmo per i grandi incontri cui il Festival ci ha ormai abituato, si è aggiunto anche il rispetto per un uomo che ha messo la sua straordinaria umanità al servizio della causa dei diritti civili. Tra le altre cose è anche un sostenitore dei diritti umani in Tibet, è infatti un co-fondatore della Tibet House, nonché creatore della Fondazione Gere e presidente del Consiglio di Amministrazione per l’International Campaign for Tibet.
Gere, oltre a parlare di cinema, si è soffermato anche sugli eventi della cronaca internazionale, sugli scontri in corso in diverse parti del mondo: «Ricordo – dice – quando il mio insegnante zen, tanti anni fa ormai, mi disse che lui non prendeva nessuna decisione se prima non faceva scendere il numero di respiri a sette. Questa pratica mi ha insegnato a non reagire in maniera impulsiva, spinto da motivazioni superficiali che non vengono dalla coscienza più profonda. Bisogna invece capire che noi siamo tutt’uno. La violenza non ha senso. Non dovremmo reagire superficialmente, ma fermarci per ragionare e trovare le risposte giuste. Io diffido dei leader che reagiscono in maniera impulsiva, rispondendo alla violenza con la violenza. Di loro non mi fido. Credo sia necessario basare tutta la propria vita sul rispetto del prossimo. Ci tengo a ricordare cosa rispose il Dalai Lama a un amico che stava per diventare padre e che si domandava come poter insegnare al figlio i veri valori della vita: “Insegnagli a rispettare la vita di un insetto. Anche lui ha dei figli, dei genitori. Se riesci ad insegnargli questo, gli hai insegnato tutto”. Io, comunque, sono ottimista rispetto al genere umano: noi, di fondo, siamo creature gentili e se tutti partissimo da questo, i problemi non solo li risolveremmo ma non esisterebbero neppure».
L’attore statunitense si sofferma anche su Time out of Mind, il film che lo vede nei panni di un homeless e che sarà presentato a Toronto. «Spero – spiega – che arrivi poi al Festival di Roma, ma ne parlerò lungamente in altre occasioni. Ci tengo però a dire che la sceneggiatura è stata scritta 25 anni fa”. Dunque, fa capire, non c’è una stretto collegamento con la situazione attuale, ma – rimarca – “evidentemente negli anni le condizioni generali non sono cambiate molto». Sul film aggiunge: «Quando ho avuto la sceneggiatura, già 8 anni fa, mi sono posto il problema di come rendere al meglio il mondo degli homeless. Mi sono messo in contatto con un’associazione che si occupa di loro a New York, che credo sia l’unica città che per legge impone che ogni persona deve avere un letto dove dormire. In questo film, quindi, abbiamo voluto raccontare il processo che porta a diventare homeless, il percorso burocratico con il quale si scontra un clochard e il modo in cui cerca di tenere le relazioni sociali».
Nel futuro dell’industria cinematografica, secondo l’attore statunitense, ci sono le tv via cavo: «Quando io ho iniziato, produzioni come House of Cards sarebbero stati realizzati dagli studios: oggi è una serie indipendente della tv via cavo. Le case di produzione HBO, Netflix, Showtime hanno autori preparatissimi, grandi budget, grande qualità. Il cinema, invece, ha ormai budget minori e tempi ridotti: Time Out of Mind l’abbiamo girato in 21 giorni con budget molto bassi, quando un tempo avremmo impiegato almeno 50 giorni. Le produzioni come HBO hanno le proprie risorse, non hanno le stesse difficoltà a reperire fondi e non c’è certo penuria di talenti.
Non sono solo le modalità di produzione ad essere cambiate, ma anche il genere e i contenuti: «Ai miei tempi – continua Gere – si facevano anche film più intimisti, oggi invece si punta sull’azione, per essere il più trasversali possibile. E se c’è tanta violenza al cinema è perché il pubblico evidentemente la cerca». Durante l’incontro con i tantissimi giurati, l’attore ha alternato speranze a disincanto: «Il 99% degli attori sono disoccupati. È un lavoro difficile: alcuni dei miei colleghi alla scuola di cinema più bravi di me hanno mollato o non ce l’hanno fatta. Per ogni professione ben fatta servono 10 mila ore di gavetta. Prima di capire come essere interpreti di talento cercate di diventare degli esseri umani dignitosi». Gere, dopo essersi complimentato con l’interprete Caterina, ha detto di aver pianto tre volte al video di Welcome dei ragazzi e ha persino commentato con piacere i fiori sul tavolino accanto a sé. Un gentiluomo d’altri tempi, insomma, oltre che un grande testimone del suo tempo: «All’inizio pensi solo a recitare ma quando capisci che quello che dici viene ascoltato dal pubblico devi prendere coscienza della grande responsabilità che comporta e agire di conseguenza».
La star hollywoodiana, nel ricevere il Premio Truffaut, ha detto: «Grazie a tutti, ragazzi. Io non sapevo bene cosa aspettarmi, ma mi sono reso conto che questo festival è veramente, veramente importante. Non per me, che non sono nessuno, ma per voi, ragazzi. Tutto questo è davvero speciale. E parteciparvi vi dà una grande responsabilità. Voi siete stati portati qui da tanti diversi posti del mondo e siete in un luogo in cui ci si aspetta che facciate venir fuori la parte migliore di voi. Dovete sempre ricordarvi che quel che fate e siete qui, dovete portarlo nelle vostre comunità, portatelo con voi, dovete restare in contatto tra di voi, connessi, e continuare a moltiplicare tutto questo per il resto della vostra vita».