I fatti si riferiscono a martedì 31 marzo quando, per vendicare Berkin Elvam (il quindicenne colpito alla testa ad un lacrimogeno nel giugno 2013 durante le proteste anti-governative di Gezi Park e morto dopo mesi di coma) un commando armato legato al DHKP-C, una formazione di matrice marxista-leninista, ha preso d’assalto la sede del palazzo di Giustizia a Caglayan, sul versante europeo di Istanbul, e preso in ostaggio il procuratore, Kiraz, responsabile delle indagini.
Nell’assalto delle teste di cuoio turche, sono morti i due terroristi. Poi, sotto i ferri, anche il giudice. Il commando armato chiedeva che la polizia riconoscesse pubblicamente la sua responsabilità nella morte del quindicenne. Il blocco dei social – ma in tutto 166 siti sono stati colpiti dall’ordine del tribunale – è una misura simile per ampiezza a quella presa un anno fa per impedire la diffusione delle denunce di corruzione contro il governo islamico-conservatore al potere. Allora la Turchia aveva temporaneamente bloccato Twitter e YouTube durante la campagna elettorale nel marzo 2014, all’indomani della pubblicazione sui siti social degli audio che testimoniano la presunta corruzione nell’entourage dell’allora primo ministro Tayyip Erdogan.
Una decisione, questa, che aveva provocato un’ondata di proteste ed era stata additata dalla comunità internazionale. La Turchia è il paese che presentato richieste di rimozione di contenuti da Twitter cinque volte di più di qualsiasi altro nella seconda metà del 2014, rivelano i dati pubblicati nel mese di febbraio dallo stesso microblog. L’anno scorso Ankara ha blindato la legge che permette alle autorità di bloccare i siti.
Fonte La Repubblica