Almeno in Italia e negli altri paesi denominati PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), l’ultima crisi è stato un effetto immediato dell’aumento del debito pubblico. Nell’ambito di un’economia globale, che ha favorito la crescita di paesi emergenti come i BRICS (Brasile, Russia, Indica, Cina, Sudafrica), il debito dei paesi europei in difficoltà poteva causare oltre che l’instabilità della nuova moneta anche il crollo del progetto politico targato UE. Ad evitare ciò, è intervenuta soprattutto la BCE del governatore Mario Draghi, attuando misure “comuni” di politica monetaria. Cosa che invece non è stata possibile per le misure di politica fiscale, che, fatte salve le acquisizioni del Fiscal Compact, compete ancora alle diverse gestioni di ogni singolo paese membro dell’Unione.
Pertanto, in ambito UE, la crescita di un paese resta ancora legata al proprio corrispondente sviluppo. In un qualsiasi manuale di economia politica ad uso degli istituti superiori, in un’economia aperta, com’è in effetti l’economia globale del presente, il reddito nazionale (Y) è dato dalla somma di consumi (C), investimenti (I), spesa (G) e la differenza tra esportazioni (Ex) e importazioni (IM). In breve, Y=C+I+G+(Ex – IM).
In questi anni di crisi, per l’Italia due sono i dati comparativi registrati maggiormente significativi: l’aumento della spesa e la diminuzione degli investimenti. In un’ampia intervista concessa al Sole 24 ore, tra le molte cose dette, Draghi ha sottolineato che “il sentiero su cui deve muoversi la politica fiscale è stretto, ma è l’unico disponibile: da un lato assicurare la sostenibilità del debito, dall’altro sostenere la crescita. Se i risparmi in conto interessi vengono utilizzati per la spesa corrente, aumenta il rischio che il debito torni a essere insostenibile quando i tassi d’interesse aumenteranno. E’ l’ideale se invece vengono spesi per investimenti pubblici il cui tasso di rendimento è tale da ripagare gli interessi quando questi cresceranno”.
(Angelo Giubileo)