In Europa è sempre un gran parlare di scadenze. Senza le scadenze non avremmo avuto negli anni novanta del XX secolo il completamento del mercato unico, non avremmo avuto nei primi anni del XXI secolo l’allargamento a molti paesi già dell’orbita comunista e sovietica, non avremmo avuto quasi in coincidenza l’introduzione della moneta unica nella zona Euro. Si trattava di scadenze positive: volte cioè a formalizzare un accordo fra gli stati membri per fare qualcosa entro una certa data.
La scadenza che si pone oggi alla Grecia – la solita Grecia – ha invece il sapore dell’ultimatum. O la Grecia riprende il controllo delle frontiere esterne, specie quelle con la Macedonia, o il sistema Schengen crolla, per cui ciascuno stato membro che vi aderisce potrà mantenere o ripristinare il controllo alle frontiere, non importa se esterne o interne.
Insomma, si tornerebbe indietro di anni anche per i movimenti “intra-comunitari”, all’epoca in cui i meno giovani di noi passavano da un confine all’altro esibendo il documento di riconoscimento e infilando la nuova valuta nel portafoglio.
La responsabilità che si vuole addossare alla Grecia non è di poco conto. La Grecia è il paese chiave della crisi umanitaria come lo è stato, e in parte lo è tuttora, della crisi finanziaria? Si ha l’impressione di un atteggiamento poco commendevole nei confronti di un partner che ha molti problemi da risolvere e scarsi mezzi per farlo. Riprendere il controllo delle frontiere esterne costa in termini finanziari e politici. Si pensi solo al fatto che la Grecia ancora disputa con la Macedonia sul nome. Macedonia, per la Grecia, è una sorta di marchio registrato che nessun altro paese può adoperare. E d’altronde ne va dell’eredità di Alessandro Magno.
Uscita a fatica dalla crisi finanziaria, ecco che l’Unione europea precipita nella crisi umanitaria generata dalle masse di migranti (economici o politici che siano, tutti essendo bisognosi di assistenza) che si muovono verso il continente dalle provenienze più disparate. Ci stanno i siriani in fuga dalla guerra, ma ci stanno pure gli afghani e gli eritrei e i pakistani e…
Qualsiasi popolazione o tribù si senta minacciata nei diritti fondamentali, fra cui quello basilare di vivere, cerca riparo in Europa vuoi per la relativa facilità dei collegamenti, vuoi per l’esibito spirito umanitario. Dopo avere combattuto due “guerre civili” sul proprio territorio, l’Europa ha adottato un codice di accoglienza che funziona in tempi normali ma scoppia in tempi di emergenza come questo.
Il gran parlare d’Europa quindi non è un esercizio mediatico: di Roma contro Bruxelles (o Berlino) come se fosse l’ennesima sfida calcistica. E’ un dibattito reale che entra nel vivo delle contraddizioni della costruzione europea. E’ un dibattito che ha anch’esso delle scadenze. Simboliche, se si vuole, ma efficaci.
La prima scadenza è il trentennale della scomparsa di Altiero Spinelli. Non è un caso che il Presidente del Consiglio sia andato a Ventotene ad onorarne la memoria. Con Ernesto Rossi, altro compagno di confino nell’isola, Spinelli firmò il Manifesto di Ventotene che resta il pilastro fondante del moderno federalismo europeo e del cosiddetto pacifismo attivo. Ricordare l’attualità di Spinelli significa ribadire l’attualità del processo d’integrazione europea, benché questo prese una via diversa da quella immaginata dallo stesso Spinelli.
L’altra data fatale è quella del 25 marzo 2017: i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma. Si tratta dei Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea e della Comunità Europea dell’Energia Atomica. Nel 2017 gli stati membri, che nel 1957 erano Sei ed oggi sono Ventotto, si riuniranno in Campidoglio per celebrare la ricorrenza ma soprattutto per tirare un bilancio dello stare insieme. Sperando naturalmente di essere ancora in Ventotto senza avere perso per strada il Regno Unito che, nell’estate 2016, dovrebbe tenere il referendum Brexit.
E allora: ultimatum per Schengen, ricorrenze di Spinelli e dei Trattati di Roma, referendum britannico, ci sta quanto basta per dibattere in maniera viva d’Europa.
di Cosimo Risi
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