Ed ancora, nella e-news il capo del Governo: “Tutti i giorni leggo polemiche tra politici e magistrati. Un film già visto per troppi anni. Personalmente ammiro i moltissimi magistrati che cercano di fare bene il loro dovere. E anche i moltissimi politici che provano a fare altrettanto”.
All’epoca di “Tangentopoli”, un acuto e schivo, Davigo, fu una delle figure di punta della procura di Milano. Era il periodo nel quale il pm simbolo della lotta alla corruzione fu Antonio Di Pietro; eminenti osservatori sostennero che il quel momento se, per assurdo, vi fossero stati condizioni ed ordinamento diversi, il popolo italiano lo avrebbe eletto, presidente della Repubblica.
Non a caso dall’astro nascente, Berlusconi, a Fini, ai leader di ciò che restava della “partitocrazia” cosiddetta, se lo contesero per la composizione di un eventuale governo, promettendogli la guida di un dicastero nevralgico. Di Pietro, si dimise dalla magistratura e finì per costituire un partito proprio. Come sempre, il tempo consente di rileggere con il dovuto distacco gli eventi ed attribuire ad essi una interpretazione meno emotiva e, quindi, più razionale.
Benché rintuzzato pure dal vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, non credo che, infondo, il neo presidente dell’ANM abbia affermato qualcosa di diverso da quella che è la opinione diffusa; ritengo, altresì, che la equazione con cui il presidente Renzi chiosa la vicenda, sia lo schema – si confida, non solo virtuale – condivisibile da tutti. Posto che il Parlamento legifera, che i giudici applicano le leggi e che nessuno, assolutamente nessuno è al di sopra di esse, considerati certi accadimenti dal post “Mani Pulite” ad oggi – senza tuttavia generalizzare – non mi pare ci si debba poi stupire a fronte della esternazione di Piercamillo Davigo, quando sostiene che da allora ai giorni nostri, si è persa solo la vergogna.
Ma se dai rappresentanti dei partiti ci si aspetta una condotta più sobria e responsabile, da taluni magistrati ci si attende che il medesimo rigore, che infondono nello svolgere il proprio, delicato compito, sia egualmente applicato ai comportamenti; evitando protagonismi e sovraesposizioni eccessivi e talvolta troppo simili, se non addirittura adusi, a coloro che hanno responsabilità politiche.
Come stigmatizzato in un precedente articolo, il malaffare è presente ovunque, in ciascuna categoria, in ogni organizzazione sociale ed è evidente che miri ad insinuarsi con maggiore prepotenza nei partiti e nelle istituzioni, i quali determinano gestione e potere, ma all’inesorabile danno che produce tutte le volte, se ne aggiunge uno moralmente forse più greve: la perdita di credibilità del sistema nel suo complesso ed un giudizio sommario e spesso ingeneroso verso migliaia di dirigenti politici e pubblici, di amministratori di enti e luoghi di governo – piccoli e grandi – di donne ed uomini che, in ogni dove, si dedicano con coscienza e coraggio al Servizio delle proprie comunità, mossi dalla passione e dal desiderio di provare a cambiare le cose.
editoriale a cura di Tony Ardito, giornalista
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