La macchina si ferma, scendono i due poliziotti che si avvicinano all’uomo, senza immaginare chi possa essere. Gli chiedono i documenti, come sempre. L’uomo si leva lo zainetto dalle spalle, lo appoggia a terra. Gli agenti si aspettano che estragga i documenti. Invece no, tira fuori una pistola, la stessa calibro 22 con cui ha ucciso l’autista polacco del Tir a Berlino, e comincia a sparare. Ferisce alla spalla l’agente Christian Movio, 36 anni, ora ricoverato a Monza. A quel punto, un altro poliziotto, Luca Scatà, un 29enne in prova al Commissariato di Sesto San Giovanni, estrae a sua volta l’arma d’ordinanza e colpisce l’uomo, a morte.
Un brutto episodio che potrebbe finire lì. Ma ci sono troppe cose che non tornano. Perché mai un balordo, sorpreso in piena notte, reagisce in una maniera tanto violenta? Tanto più che sparando, secondo alcune ricostruzioni, avrebbe pronunciato la parola simbolo dei terroristi islamici: «Allah akbar». Fosse stato uno spacciatore come i tanti che frequentano la zona non si sarebbe mai comportato in una maniera del genere. Lo zaino racconta di lui cose che allarmano subito la polizia: trovano prodotti tedeschi, non ci sono documenti. Ma gli investigatori hanno un sospetto e decidono di prendere le impronte digitali. Passano alcune ore e arriva la conferma: si tratta del killer di Berlino.
Dagli accertamenti della Digos, coordinati dal capo dell’antiterrorismo milanese Alberto Nobili, emerge che Anis Amri è arrivato in Italia dalla Francia, in particolare da Chambery, in Savoia, da dove ha raggiunto Torino. Dal capoluogo piemontese ha preso poi un treno per Milano dove è arrivato attorno al’una di notte. Infine dalla Stazione Centrale si è spostato a Sesto san Giovanni dove ha incrociato i due agenti della volante che poi, durante una sparatoria, lo hanno ucciso.