E’ oggi indubbio che si è trattato di un fenomeno soprattutto economico-finanziario, fiancheggiato e sponsorizzato dalla politica; la quale, in particolare per quanto accaduto in Europa, per mezzo delle proprie scelte, ha creduto all’inizio di potersene servire per scopi finanche “pubblici”. Salvo accorgersi poi che nell’attualità delle cose questo diventava impossibile. O comunque sconveniente.
Una dimostrazione lampante di ciò, è quanto accaduto in merito allo scontro tra l’assunta posizione generalista del divieto degli aiuti di stato e la prassi, viceversa non consolidata ma sporadica, in specie similare e a esempio della defiscalizzazione degli oneri d’investimento, come nel caso del vantaggio concesso all’Apple per un ammontare di 13 miliardi di euro dai governi dell’Irlanda per il periodo dal 2003 al 2014.
La globalizzazione doveva in effetti costituire il portato di un regime di “libera concorrenza dei commerci”, rivelatosi con il passare del tempo viceversa sempre più illusorio. Agli albori dello sviluppo dei mercati orientali di fine secolo scorso, in primis il Giappone – e prima ancora dell’avvento del modello di capitalismo finanziario internazionale, prefigurato dai cosiddetti FOS (Sovereign Wealth Funds), meglio noti come fondi sovrani -, il celebre economista statunitense John Kenneth Galbraith scriveva nell’apparente lontano 1987: “… In Giappone lo Stato è in realtà, come riteneva Marx, il comitato esecutivo della classe capitalistica; questo è un fatto normale e naturale. Ne risulta una cooperazione accettata fra industria e governo – investimenti pubblici, pianificazione e sostegno dell’innovazione tecnologica – che è impensabile, nella misura in cui non sia considerata addirittura sovversiva, nella tradizione americana e britannica”. Tale giudizio, che nell’ambito dello sviluppo del sistema dell’attuale capitalismo finanziario non è valso per il Giappone, vale senz’altro oggi per la Cina.
Quali caratteristiche comuni hanno avuto i FOS? Essenzialmente, si è trattato di quantitativi disurplus di bilancia commerciale che alcuni stati sovrani o enti di loro diretta emanazione hanno investito sui mercati internazionali per l’acquisto di attività sia extranazionali che extraterritoriali. In un’economia, che cresceva sempre più e “a debito”, essi hanno finito così con l’acquisire anche parte del debito pubblico delle nazioni nelle quali investivano e continuano a investire, soprattutto in dollari statunitensi.
Altro che populismo. Un termine che, al contrario di globalizzazione e questo almeno in parte, a nulla serve quanto alla comprensione di ciò che nel presente sta accadendo.
Nel loro saggio di ricerca, pubblicato nel 2015 e dal titolo Come la Cina sta conquistando l’Occidente, J. P. Cardenal e H. Araujo si chiedono come sia possibile “lottare contro un paese guidato da un regime autoritario che, al tempo stesso, ha più disponibilità finanziaria di chiunque altro e offre il miglior mercato in crescita del futuro”. L’afflusso di denaro è forse più vistoso in Europa. Approfittando della crisi di debito pubblico di alcuni degli stati membri dell’Ue, dal 2008 al 2015 e nell’Europa a 28 (compresa la Gran Bretagna e quindi oltre il novero dei 19 paesi che viceversa hanno adottato l’euro), la Cina ha investito oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 35 negli ultimi due anni di raffronto e, di questi 35, circa 15 in paesi dell’Europa meridionale. Si tratta, quindi, di un trend in rapida crescita.
Quanto agli Stati Uniti? La recente elezione di Donald Trump aveva anch’essa fatto pensare, come avrebbe dovuto essere stato per Brexit e invece non è stato, all’indomani, a un crollo delle borse. Evento che anche stavolta non si è affatto verificato. Anzi, piuttosto che un calo, si è assistito a un subitaneo rialzo degli indici Dow Jones e Nasdaq. La scelta “isolazionista”, propagandata da Trump, sembra quindi almeno finora non avere avuto alcun impatto negativo sui mercati e in particolare sull’attività frenetica di business commerciale guidata dal Presidente cinese Xi Jinping. Sondaggi, antecedenti all’elezione, avevano già mostrato “che in 15 dei 22 paesi presi in esame la maggior parte degli intervistati concorda(va) sul fatto che la Cina scalzerà o ha già scalzato gli Stati Uniti quale potenza guida del mondo” (J. S. Nye Jr, Fine del secolo americano?), con percentuali di convinzione nel tempo maggiormente crescenti proprio nell’ambito degli Stati Uniti.
C’entra qualcosa questo con il populismo dei media? In effetti, c’entra; ma, principalmente nel senso che il cambiamento auspicato e voluto non è il frutto del decisionismo dei popoli quanto piuttosto delle stesse élite di governo degli stati occidentali a cui pare sia sfuggito o sfugga di mano il controllo del capitale finanziario d’investimento.
E dunque, altro che populismo. Si tratta invece della ricetta di sempre. Rispetto alla situazione, che abbiamo letto, in genere come paventata da Galbraith, oggi infatti il più accreditato politologo statunitense di origine indiana, Parag Khanna sembra così risolva: “Marx affermava che a uno sfruttamento capitalistico privo di confini doveva opporsi una risposta proletaria altrettanto priva di confini; in caso contrario l’abolizione dello Stato in favore della nascita di una società realmente egualitaria non sarebbe stata possibile” (in Connectography – Le mappe del futuro ordine mondiale).
Ma, in fondo, questa potrebbe essere ritenuta solo un’u-topia; e quindi, nel frattempo, meglio forse pensare, così come pare stia di fatto accadendo nel mondo della politica occidentale, a una ripresa del metodo, che l’Ue in particolare definisce intergovernativo. Tralasciando, in effetti, il metodo finora comunitario. Basterà? E’ lecito dubitarne. Il rischio? Alto, dopo settant’anni di “pax americana”.
Per qui finire, qualche giorno fa, il giornalista economico Danilo Taino ha scritto: “Eppure, Donald Trump si avvicina, con le sue proposte, a un’idea di libertà condizionata dal governo, magari in forma light, non esattamente cinese”. Sarebbe dunque questa, l’alternativa di libertàche il futuro ci riserva?
Angelo Giubileo