«Ho vissuto (male) per trent’anni. Qualcuno dirà che è troppo poco», scrive come incipit Michele. Non erano pochi per lui che racconta di essere «stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili».
Parole stanche, ma lucide. Capaci di entrare nel dramma della precarietà, quella fotografata dall’Istat con l’indice di disoccupazione che tra i più giovani (15-24 anni) ha toccato il 40,1%. Quasi uno su due non lavora. «È una realtà sbagliata – spiega Michele – una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni e insulta i sogni».
Non è solo male di vivere, quello che emerge dalle ultime parole di Michele. C’è dell’altro. La sua intende essere un’accusa di un’intera generazione. «Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato», ragiona. «Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto. Di “no” come risposta non si vive, di “no” si muore».
Ecco perché l’ultimo suo atto, il suicidio, è rivolto a questa società che, scrive Michele, «si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come dovrebbe fare». Un gesto che chiede confronto: «Siete voi che fate i conti con me». E ancora: «Questa è un’accusa di alto tradimento al contesto». In chiusura chiede scusa ai suoi cari e cita in un post scriptum il ministro del Lavoro («Complimenti a Poletti. Lui sì che valorizza noi stronzi»). E poi la resa: «Ho resistito finché ho potuto».
«Emerge un forte senso di ingiustizia incompresa», commenta Paolo Baiocchi, medico psichiatra e psicoterapeuta . E spiega: «Del resto sono tutte le statistiche nazionali che fanno emergere come i giovani siano quelli che hanno meno speranza in questo periodo storico. Se parte una spirale emozionale negativa il rischio può essere anche quello di sfogare la rabbia su se stessi», spiega il direttore dell’Istituto Gestalt di Trieste che, proprio in Friuli Venezia Giulia, ha lanciato un progetto sociale gratuito rivolto ai disoccupati. «Il nostro metodo – aggiunge – si basa proprio sulla condivisione in gruppo delle sfide: la forza dello stare insieme in questi casi è fondamentale».
Più dura l’analisi di Massimiliano Santarossa, scrittore friulano e narratore realista delle periferie italiane e degli esclusi. «La colpa non è dell’economia in sé, ma di chi ha fatto dell’economia un Dio», dice. «In Friuli, come in Veneto, con la crisi economica e la globalizzazione è crollato un intero sistema di valori che era incentrato solo sul lavoro». C’è un’altra faccia dietro al mito del Nord-Est produttivo, insomma. «Certo che c’è: è la storia di chi ne è rimasto escluso, come questo ragazzo, o come dei tanti che ritrovi al bar ogni giorno, senza più speranze né sogni».
Fonte Lastampa.it