La sentenza di primo grado del tribunale di Milano è di maggio. Contro la decisione dei giudici, i legali di Facebook si sono battuti in ogni modo. Ma nelle scorse settimane è arrivata la batosta bis, forse definitiva: la Corte d’appello di Milano ha rifiutato al richiesta del colosso americano di sospendere l’esecutività della sentenza. La sentenza è stata pubblicata. E Facebook ha dovuto rimuovere la app che scopiazzò a Business Competence.
La app si chiama Faround, una delle creature affascinanti e a volte un po’ inquietanti che accompagnano la vita di un possessore di smartphone: individua dove ti trovi, si ricorda i tuoi gusti, ti segnala negozi, bar e ristoranti vicino a te, ti riferisce i giudizi dei tuoi amici. Nel 2012 i milanesi la propongono a Facebook, i californiani la prendono in esame per verificare se funziona e se corrisponde alla loro policy. E poco dopo invece di arruolare Faround se ne escono con una app loro, praticamente identica, che chiamano Nearby.
Anche i loghi si assomigliano. Le app sono addirittura «sovrapponibili», dice la sentenza del tribunale di Milano. I giudici parlano di «univoci e concordanti indizi» che si sia trattato di un plagio bello e buono: a partire dal tempo incredibilmente breve che scorre tra il giorno in cui gli italiani presentano agli americani il prototipo definitivo di Faround, alla fine di agosto, e il lancio da parte di Facebook della app sovrapponibile, il 18 dicembre. Troppo poco per sviluppare qualunque progetto autonomo. Gli americani avevano in mano i codici sorgente, e hanno «clonato il cuore» del programma italiano, si legge nelle carte del processo.
Facebook dopo che la sentenza è divenuta definitiva si è precipitata a rimuovere Nearby, anche perché altrimenti avrebbe dovuto pagare a Business Competence cinquemila euro al giorno; una seconda causa stabilirà il risarcimento che gli americani dovranno versare per il danno già fatto. I milanesi useranno anche quei soldi come gli altri che guadagnano: per creare e lanciare nuove idee come le ultime nate, Dogalize e Swascan, che parlano agli antipodi dell’utenza (la prima è una community per padroni di cani e gatti, la seconda una piattaforma di sicurezza per l’information technology).
Intanto, la sentenza chiarisce un punto decisivo: qualunque siano le condizioni che un colosso come Facebook impone agli imprenditori indipendenti che chiedono di lavorare per esso, non potranno mai consentire a mr. Zuckerberg «un approfittamento parassitario del lavoro e degli investimenti altrui».
Fonte www.ilgiornale.it
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