Sta per perdere un pezzo col recesso del Regno Unito. Il negoziato (“trigger article 50”, per dirla cogli inglesi) è sul piede di partenza dopo che la Regina ha firmato il Bill (la legge) di autorizzazione al Governo. Resta l’incognita della Scozia, che vorrebbe restare nell’Unione rinunciando al Regno Unito, senza dovere passare per un negoziato d’adesione.
A Roma la cerimonia, nella stessa sala del Campidoglio che il 25 marzo 1967 ospitò la firma dei Trattati CEE (Comunità economica europea) e CEEA (Comunità economica dell’energia atomica), sarà sobria, come si addice ai tempi. Una sequenza di discorsi intervallati da brevi filmati RAI, la firma della Dichiarazione di Roma, il trasferimento al Quirinale per la colazione offerta dal Presidente della Repubblica.
Tutto il programma è racchiuso in una manciata di ore e vede come protagonisti le istituzioni europee ed i Capi di Governo di Italia (paese ospitante) e Malta (paese che ha la presidenza di turno del Consiglio UE).
Il progetto di Dichiarazione è all’attenzione dei negoziatori nazionali, bisogna superare le prevedibili resistenze degli stati membri verso un’Unione sempre più stretta, la formula sacramentale del Trattato di Lisbona che ha determinato la disaffezione britannica e potrebbe produrre altre disaffezioni.
La via immaginata dagli estensori del testo è delle integrazioni differenziate. Ne ha parlato il Presidente del Consiglio davanti al Parlamento europeo. Non che siano una novità assoluta. Le integrazioni differenziate funzionano già a trattati vigenti.
Area Schengen, zona euro: sono già integrazioni differenziate, nel senso che ci stanno gli stati membri che vogliono e possono. La politica europea della difesa, l’altro punto di attacco per il rilancio, si baserà anch’essa sull’integrazione differenziata. Praticheranno la cooperazione strutturata permanente, il nome in gergo adoperato dal Trattato per la difesa, gli stati membri che abbiano la capacità militare adeguata.
Il nucleo attorno cui lavorare dovrebbe essere quello del Vertice di Versailles: Francia, Germania, Italia, Spagna. Tutte le integrazioni differenziate sono aperte all’ingresso degli stati membri inizialmente esclusi, o autoesclusi. Si procede a diverse velocità, ma i più lenti possono raggiungere i più veloci in qualsiasi momento.
Tutto apparentemente bello. Tutto per nulla scontato. All’evoluzione sottendono i sentimenti profondi delle popolazioni e dei governi. Ulteriori cessioni di sovranità toccano tasti sensibili, specie in epoca di sovranismi (neo-nazionalismi). Pesano gli aspetti contingenti delle competizioni elettorali. Tutti hanno tirato un sospiro di sollievo per l’esito delle votazioni olandesi. I Paesi Bassi hanno confermato il primato del partito del Primo Ministro Rutte, un centro-destra moderato e liberale.
La vittoria è in realtà una sconfitta mascherata: il partito di maggioranza perde voti e seggi rispetto al passato, mentre guadagna voti e seggi il partito populista per definizione, un misto di nazionalismo e xenofobia mascherata da anti-islamismo. Un partito del “no” che non ha prodotto evidentemente un programma del “si” e questo lo relega in un’opposizione certamente forte ma lontano dai gangli governativi.
La partita si sposterà in Francia, dove Fillon, il candidato del centro-destra, dato per probabile vincitore nel ballottaggio con la candidata del Front National, si è impigliato in una vicenda giudiziaria che, comunque finisca, ne rallenta la corsa all’Eliseo. Gli europeisti giocano la carta Macron, il candidato di sinistra che guarda al centro orfano di Fillon. Il 2017 si chiude con le elezioni tedesche. Angela Merkel conferma la statura di leader misurandosi con Trump a Washington. Su migrazioni e protezionismo parla il linguaggio della chiarezza. A lei come ora a Rutte guardano gli europeisti in cerca d’autore.
di Cosimo Risi
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