La Gran Bretagna è pur sempre la Gran Bretagna. Tusk fa la faccia contrita di chi si rammarica del divorzio e maliziosamente saluta con un “goodbye”, addio. Il distacco dell’ex è amaro quanto definitivo.
La vicenda del Regno Unito con l’Unione esemplifica un rapporto mai davvero basato sull’amore, ammesso che di questo si possa parlare nelle relazioni internazionali, ma piuttosto sulla convergenza degli interessi: nell’intento, spesso di successo, di costringere il dibattito europeo nel ridotto del mercato unico e poco più. Non è un caso che la delegazione britannica abbia sempre avversato la magica espressione dell’Unione sempre più stretta.
Il recesso britannico toglie il facile argomento a quanti non vogliono rafforzare l’integrazione, ma si nascondono dietro le riserve di Londra per giocare al ribasso. Ora è il caso della Polonia, che a malincuore ha accettato la Dichiarazione di Roma (25 marzo 2017) solo a condizione che certi passaggi eccessivi fossero edulcorati dal testo finale.
In passato altre delegazioni si erano accodate alla britannica per sopire qualsiasi fermento integrazionista se non addirittura federalista. Ora i Ventisette sono davanti alle loro responsabilità senza il pretesto che “tanto Londra non vuole”. Cercano l’unità nell’opporre alla delegazione britannica un fronte compatto al tavolo delle trattative.
Queste sono previste durare due anni solo per decretare il divorzio, mentre ci vorrà un periodo da determinare per concordare il nuovo regime convenzionale UE – Regno Unito. Un grande accordo di libero scambio – il “più grande mai realizzato”, come auspica Theresa May – che includa, nelle intenzioni europee, le quattro libertà, fra cui la circolazione delle persone e lo stabilimento. Ovvero: i cittadini europei residenti in UK continueranno a godere dei diritti acquisiti e quelli che vorranno entrarci subiranno regole ragionevoli, al pari dei sudditi britannici presenti nell’Unione.
Le trattative saranno intense, a tratti dure. La previsione è del capo negoziatore UE, il francese Michel Barnier, che ha un ricco curriculum da Commissario europeo e da Ministro nazionale.
Barnier arriva ad ipotizzare che le trattative si svolgano in francese, ripudiando alfine l’uso pressoché esclusivo dell’inglese. Si pensi che persino la Dichiarazione di Roma, adottata dai Ventisette senza il Regno Unito, è stata redatta originariamente in inglese!
La disputa linguistica sarà uno dei numerosi punti che verranno sul tavolo. Il più spinoso riguarderà i crediti che Bruxelles avanza nei confronti di Londra: quei miliardi di euro che andranno versati alle casse europee come contributo a programmi pluriennali decisi con l’accordo britannico.
Più paga il Regno Unito a titolo di assegno divorzile e meno pagano gli stati membri contribuenti netti (fra cui l’Italia). I divorzi sono la manna per gli avvocati specializzati. Alle ragioni del cuore, presto dimenticate, si sovrappongono le ragioni del portafoglio, quelle sì durevoli.
Eppure il Regno Unito ebbe tutto il tempo “to fall in love” (innamorarsi) della Comunità europea. Quando Jean Monnet ideò quella che sarebbe divenuta la Dichiarazione Schuman (1950), e cioè il documento iniziale della costruzione europea, Londra benignamente rispose che si sentiva più vicina all’Australia ed alla Nuova Zelanda che al continente europeo. Quando la Francia sciolse la riserva sull’adesione britannica (De Gaulle temeva che Londra divenisse l’occhio di Washington negli affari europei), il Regno Unito entrò sulla scorta di un referendum quasi plebiscitario a favore.
Eravamo nel 1973. Da allora, fra i partner sono corse molte incomprensioni e molte iniziative comuni. A certi grandi appuntamenti – Schengen, moneta unica, carta dei diritti sociali – Londra non arrivò cogli altri. Ora che sta per riacquistare pieno margine di manovra, non possiamo che augurare “good luck”, buona fortuna. May sostiene che uscire dall’Unione non significa uscire dall’Europa. L’Europa resta il destino comune.
di Cosimo Risi
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