La condanna del commentatore è che non sa come commentare. I fatti appaiono chiari soltanto nella contabilità delle disgrazie. Appaiono confusi appena si ascoltano le trombe della propaganda. Gli Stati Uniti, e buona parte dell’Occidente e del mondo arabo, ritengono che aerei siriani abbiano sganciato armi chimiche sul villaggio provocando un certo numero di vittime fra cui – massimo orrore – decine di bambini.
Lo sgomento ora per le giovanissime vittime, dopo l’ecatombe di centinaia di migliaia di persone e la fuga di milioni di displaced people (la dicitura volutamente asettica dei profughi e degli scampati), suscita una certa amara ironia. Sono anni che la guerra civile infiamma la Siria, fino alla primavera araba ritenuta sicura nelle mani altrettanto sicure della dinastia Assad.
Sono anni che la comunità internazionale si esercita in Siria come in un laboratorio per esperimenti dolorosi quanto necessari. Ed ecco che l’uccisione di un esiguo numero di persone scatena il finimondo. Qualcosa deve essere accaduto che sfugge alla nostra attenzione di umili osservatori.
Le prove provate, di cui gli Americani si dichiarano in possesso, sono smentite come fake news, bufale, dal regime siriano e dall’alleato moscovita. Si tratterebbe di un incidente: un deposito di armi chimiche erroneamente colpito da un razzo.
Sarebbe una provocazione (ordita dai soliti israeliani e dai loro occasionali sodali sauditi, emiratini, turchi?) per screditare un regime talmente screditato di suo che, fino alla penultima dichiarazione di Trump, pareva condannato all’archivio della storia per essere rimpiazzato dal solito improbabile governo di unità nazionale.
Appunto: fino alla penultima dichiarazione di Trump, quella secondo cui l’uscita di Assad non sarebbe stata una precondizione per i negoziati. Dopo l’infanticidio l’ultima dichiarazione individua in Assad il responsabile politico dell’efferato gesto. Inefficace l’ONU, bloccata dal veto russo, ci pensa Washington a porre rimedio: con l’ordine alle navi che incrociano nel Mediterraneo di lanciare una salva di missili sulla base aerea siriana da cui sarebbero decollati i velivoli letali.
Mentre l’Occidente per solidarietà atlantica si associa alla rappresentazione americana, il quadro che segue al colpo americano si svolge secondo copione. La Siria parla di attacco proditorio e ingiustificato che meriterà la giusta reazione.
La Russia accusa gli Stati Uniti di violare le regole internazionali con un’azione pretestuosa e preordinata. Il Consiglio di Sicurezza è convocato d’urgenza per cercare di dirimere una vicenda che non verrà verosimilmente risolta nell’occasione né in seguito.
Il solo scenario probabile è che la mattanza siriana continui. La sola speranza possibile per l’Europa, considerato che il Mediterraneo è il mare di casa dove ci apprestiamo alle navigazioni estive, è che i venti di guerra non scuotano le nostre vele fino a strapparle.
Qualcuno ci prova, e purtroppo con successo. L’attentato di Stoccolma, come quelli che l’hanno preceduto in un sinistro rosario, dimostra che le nostre società aperte e tolleranti, come amiamo definirle per convincerci che così sono, sono vulnerabili: il terrorismo alberga dentro di noi, fra le migliaia di uomini che accogliamo da tempo o di recente ma che pieni cittadini non si sentono.
Vuoi perché si radicalizzano in carcere e nelle comunità chiuse di appartenenza, vuoi perché sono foreign fighters, guerrieri di ritorno. Essi sono una minaccia incombente e soprattutto “altamente imprevedibile”, per dirla con il nostro Ministro dell’Interno.
Essi continueranno a trovare alimento ideologico, quando non anche supporto organizzativo, dalle guerre guerreggiate che si combattono fra Mediterraneo e Golfo: nell’arco della crisi che va dall’Iraq alla Siria e dintorni.
Cosimo Risi