Dopo i saluti di Pina Basile, Presidente della Dante di Salerno, nella sua dotta prolusione Alberto Granese ha tracciato un profilo biobibliografico dello studioso, sottolineando il suo tratto interdisciplinare, raccordando filosofia e teologia con una particolare attenzione alla letteratura.
Michele Bianco ha esordito con una citazione di Heidegger “pensare e ringraziare”, non nascondendo la difficoltà di addentrarsi in un mistero tanto fitto quanto affascinante, nonostante il suggerimento di Kant di non argomentare sulla realtà più noumenica in assoluto, il mistero del Dio cristiano uno e trino, uno nella sostanza e trino nelle persone, distinte e inconfuse, che permea la nostra esistenza e si rivela nella storia credente come dono e grazia che le tre Divine persone si fanno e ricevono e che fanno all’umanità. All’antica domanda del filosofo: “perché l’essere invece del nulla?”, si risponde con Giovanni che “Dio è Amore” che ci ha voluto immettere nell’unione col Padre nello Spirito Santo mediante l’incarnazione del Figlio. La Trinità in se o immanente è diventata Trinità per noi o economica.
Dopo aver tracciato un breve percorso storico e teologico, illustrando il mistero dei misteri nei secoli, precisato nei dogmi dei concili di Nicea e Costantinopoli e poi di Calcedonia, il relatore, menzionando i più importanti teologi contemporanei (Barth, Rahner, Laurentin, Forte e altri) ha evidenziato il “ritorno alla patria trinitaria”, dopo il lungo esilio in cui era stata confinata, e ha sottolineato la riconsiderazione del legame trinitario con la storia, inteso quale relazionalità, comunione, circolazione di amore cui l’uomo è chiamato come alla sua più alta vocazione.
È impossibile sintetizzare i numerosi concetti dell’autore che ha colto in Dante una sintesi della tendenza mistico-personalistica di San Bernardo, San Bonaventura e Riccardo di San Vittore, con quella più intellettualistica di Sant’Anselmo e San Tommaso, tutti in ideale continuità con Sant’Agostino e le sue analogie triadiche che egli mutua dalla struttura dell’anima umana (memoria, intelligenza e volontà) nelle sottili distinzioni di processioni, relazioni, persone e missioni.
La vera novità di Dante per Bianco, è la dimensione pericoretica, ossia della “danza divina”, ricavata dallo pseudo Cirillo e da San Giovanni Damasceno, tramite Riccardo, Bernardo e Bonaventura, conciliando i due modelli interpretativi, monosoggettivo o intrapersonale e plurisoggettivo o interpersonale che include l’Amante, l’Amato e il Coamato, affianco all’Amore, Amante e Amato.
Gli aspetti più interessanti del lungo, laborioso e complesso discorso sono stati appunti quello della pericoresi e del trinitariocentrismo numerologico, che considera i numeri nell’aspetto qualitativo anziché quantitativo, richiamando l’ordine dell’universo, in ininterrotta continuità con la Scuola Pitagorica, col neoplatonismo, e con autori medievali ai quali ha attinto e che Dante stesso cita: Isidoro di Siviglia, Rabano Mauro e Ugo di San Vittore.
Con questo duplice dinamismo, di uscita e di ritorno, la Trinità segna come una matrice preformativa l’universo intero, in una ontologia d’amore con cui si possono leggere i versi dedicati dal poeta all’arduo tema in una circolarità che richiama continuamente l’umano al divino, fino al secondo cerchio, il Figlio, riflesso dal primo, il Padre, riflettendo entrambi e insieme il terzo, lo Spirito Santo, in cui il poeta cerca , prima dell’estasi finale, dopo aver contemplato l’unità di Dio nella molteplicità del creato e la Trinità delle persone, “come iri da iri”, di individuare l’impossibile algoritmo della quadratura del cerchio, ossia il legame della natura umana con quella divina nell’unicità della persona divina del Figlio.
Per dono naturale di grazia e per sovrannaturale infusione della luce della gloria Dante riesce a vedere la quadratezza della nostra carne nella circolarità dell’amore divino in un abbandono alla luminosissima oscurità dionisiaca dell’accecante tenebra in cui non è più la verità che possiede e illumina il mistero, ma è il mistero che possiede e illumina la verità.
L’aspetto più innovativo è il trinitariocentrismo numerologico, che incastra la dimensione trinitaria e binaria della terziana incatenata, invenzione dantesca, con la centralità del due, incarnazione e unione ipostatica, che funge da raccordo tra le rime presedenti e successive. Tre Cantiche di 33 versi in endecasillabi. Moltiplicando 11×3 si ottiene proprio 33. Il 3, numero trinitario, è come il file rouge che si connette alla sostanza dottrinaria. Una sola considerazione finale.
La Divina Commedia si compone di 14223 versi in cui ritorna martellante il 3: 3 Regni, 3 Fiere, 3 Furie, 3 Giri, 3 Donne, 3 Gradini del Purgatorio, 3 Virtù Cardinali … Triregno e Terza rima in un Dante uno e trino: autore, narratore e attore. 14223 si scompone in: 3+2+2=7; 14+7=21 (2+1=3). La Divina Commedia finisce col 3, la firma trinitaria.