La prima missione presidenziale all’estero comincia con l’Arabia Saudita e prosegue in Israele per finire in Italia, fra Taormina (G 7) e Roma (Santa Sede).
Vi sono elementi secolari nella missione (economia, petrolio, sicurezza), vi è attenzione al fenomeno religioso non tanto per i profili spirituali quanto per comprendere se e come le tre religioni monoteiste, e quanti le rappresentano a livello mondiale, possano contribuire alla stabilità.
Il Sovrano saudita riceve legittimità dall’essere custode dei Luoghi Santi di Makkah – Al Mukarramah (Mecca) e Medina. Israele controlla la Città Santa di Gerusalemme (Al – Quds, la santa, per gli arabi), che è il fulcro di ebraismo, cristianesimo, Islàm e perciò è il luogo più controverso al mondo. Ed infine la Santa Sede, il cui Capo non si è mostrato accondiscendente con Trump su certi punti (il muro col Messico e non solo). Si direbbe un pellegrinaggio eclettico più che una missione di stato. Eppure Trump, che sembra facile all’improvvisazione, deve avere ben meditato la prima uscita.
Al pari dei predecessori, e specie dell’invidiato Obama, egli assume come compito quello di portare la pace in Medio Oriente. “Vaste programme”, commenterebbe Charles de Gaulle. Ed in effetti nessun Presidente, salvo i democratici Jimmy Carter e Bill Clinton, hanno favorito accordi significativi nella regione.
Carter fu il promotore degli accordi di Camp David fra Egitto e Israele, Clinton degli accordi fra Autorità Palestinese e Israele. Ma nulla di definitivo, tant’è che il processo di pace in Medio Oriente resta in capo all’agenda internazionale.
Trump si pone nella scia di una pratica consolidata nel tempo, con la speranza tipica del neofita di fare meglio dei predecessori e di segnare il proprio nome nel grande libro della storia. E perché no: avvicinarsi al Nobel per la pace, persino questo assegnato a due Presidenti democratici come Carter e Obama.
L’Arabia Saudita è la tappa d’obbligo. Serve per converso a rimarcare la presa di distanza dall’altra potenza musulmana, quell’Iran che Obama aveva tolto dall’emarginazione con l’accordo sul nucleare. Trump pratica una scelta a favore dei sunniti ed a scapito degli sciiti. Sarà interessante sapere come i governanti sauditi commentano la rielezione di Hassan Rouhani in Iran: se gli riconoscano la patina di riformista di cui è accreditato in Europa.
A seguire, nel viaggio, la tappa in Israele, che coincide con la ricorrenza del cinquantenario. Mezzo secolo fa scoppiò la Guerra dei Sei Giorni fra Israele e la coalizione araba guidata dall’Egitto.
La vittoria israeliana fu così folgorante che il nuovo Stato, fondato appena nel 1948, conobbe la massima espansione territoriale, fino ad attestarsi lungo il Canale di Suez, conquistare il Golan siriano, riunificare Gerusalemme prima condivisa col Regno di Giordania.
Da candidato e da Presidente appena eletto, Trump aveva annunciato l’intenzione di trasferire l’Ambasciata americana da Tel Aviv, dove stanno tutte le sedi diplomatiche, a Gerusalemme. Il suo nuovo Ambasciatore in Israele dovrebbe provvedere al trasferimento. L’Ambasciatore, un esponente della comunità ebraica americana, ha assunto servizio a Tel Aviv, pregato al Muro del Pianto (Western Wall), taciuto sul trasferimento della sede.
Resta da vedere se pure Trump tacerà sul punto o se vorrà accogliere le premure del Primo Ministro israeliano. Per ora si registra che Melania Trump, al pari di altre dignitarie occidentali come Theresa May e Angela Merkel, si è recata a capo scoperto presso la corte saudita e che il Re le ha stretto ostentatamente la mano. Il tempo passa anche a Riyadh.
Cosimo Risi
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