Ai tempi dell’Impero romano neonati avevano crescita ‘turbo’

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Ai tempi dell’impero romano i bambini crescevano più rapidamente che al giorno d’oggi: lo rivela l’analisi di 18 denti da latte appartenenti ad altrettanti neonati sepolti nel II secolo dopo Cristo nella necropoli di Velia, vicino Salerno.

Lo studio, pubblicato su Plos One, è stato condotto dai biologi dell’università Sapienza in collaborazione con il Museo delle Civiltà di Roma, l’Università di Tolosa III e l’University College di Londra. “I denti sono importanti archivi che racchiudono la storia di un individuo – spiega la prima autrice dello studio, Alessia Nava -.

I denti da latte, in particolare, si formano già a partire dal terzo mese di gestazione e per questo possono fornire importanti informazioni sullo sviluppo intrauterino, un momento cruciale della vita che ha inevitabili ricadute sulla salute anche in età adulta”. Per sfruttare questa ‘macchina del tempo’ biologica, i ricercatori hanno esaminato 18 denti incisivi appartenenti ad altrettanti neonati deceduti entro i sei mesi d’età.

“I denti si formano per apposizione di strati successivi di smalto, che generano anelli di accrescimento simili a quelli dei tronchi degli alberi. Sezionandoli longitudinalmente – sottolinea Nava – possiamo leggere la loro sequenza, ricavando una cronologia dettagliata al singolo giorno. Possiamo scoprire se la gravidanza è stata disturbata da eventi stressanti, se il bimbo è nato prematuro e perfino se è morto subito dopo la nascita”.

I dati ottenuti dalle analisi hanno permesso di sviluppare un modello statistico che permette di calcolare in modo semplificato i tassi medi di crescita dei denti da latte e di stimare la percentuale di nati prematuri nelle popolazioni archeologiche. Confrontando i tassi di crescita media giornaliera con quelli osservabili nei bambini di epoche moderne, emerge a sorpresa che nei bimbi dell’antica Roma lo sviluppo era più variabile ma mediamente più alto.

“Ci aspettavamo questa differenza nell’era pre-antibiotica e pre-industriale – ammette la ricercatrice – ma per comprenderne le ragioni serviranno nuovi studi su campioni più ampi”.

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