È noto, infatti, che il microrganismo in questione è microaerofilo, termofilo (si adatta bene a temperature comprese tra i 30 °C e i 47 °C con un optimum di 42°C), ma anche termo-sensibile (sensibile all’essiccazione) e resistente al congelamento (sopravvive meglio in condizioni di refrigerazione che a temperatura ambiente). Gli esperti della FSA – rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, associazione da sempre attenta alle novità in tema di salute che possono portare benefici alla collettività – hanno spiegato che attraverso il lavaggio del pollo, i batteri si diffondono sugli strumenti da cucina o sulle mani, favorendo la creazione di un ecosistema ideale per la distribuzione.
Il patogeno può invadere poi il tessuto epiteliale intestinale e quindi innescare una condizione patologica nota come campylobatteriosi, caratterizzata da diarrea, febbre, nausea, crampi addominali e brividi di freddo.
Gli specialisti hanno anche ricordato che secondo alcuni studi può sussistere una relazione tra l’infezione di Campylobacter e lo sviluppo della sindrome di Guillén Barré, chiamata a volte paralisi di Landry o sindrome di Guillain-Barré-Strohl, che è una radicolo-polinevrite acuta (AIDP, acute inflammatory demyelinating polyradiculoneuropathy) che si manifesta con paralisi progressiva agli arti con andamento disto-prossimale (di solito prima le gambe e poi le braccia). Quindi, anche se lavare il pollo è una pratica attuata da generazioni, vi è la possibilità che possa provocare, o meglio favorire, l’insorgenza di questo tipo di patologie.
La FSA ha ricordato, infine, che i primi focolai sono stati rilevati in Cina. Alla luce di questi studi è quindi, sempre opportuno ridurre nella maniera migliore possibile il contatto diretto con il pollame crudo e utilizzare il più banale ed efficacie trattamento battericida: la cottura.
Giovanni D’Agata Sportello dei Diritti