Da tempo uno stabile sulla piazza era occupato da un crogiuolo di persone, alcuni dicono di occupanti professionali, altri soltanto di profughi o richiedenti asilo.
Oltre alla presenza di mamme e bambini, che sempre attirano la pietà popolare.
La polizia, su ordine prefettizio, decide di sgomberare l’immobile ed i giardini antistanti con le brutte: idranti, manganelli, agenti in tenuta anti-sommossa. Il pattuglione, come si dice in gergo, è comandato da un dirigente in borghese. Nella concitazione dei tafferugli, il dirigente se ne esce con un incitamento che viene subito registrato e riprodotto sui media.
Il tema dell’occupazione di stabili si confonde subito col tema della durezza dell’azione di polizia. Qualcuno ripropone la diatriba se con lo stato (la polizia) o coi migranti (i profughi e i richiedenti asilo). Non vale a stemperare la polemica la foto dell’agente col casco che consola una donna nera.
La diatriba rischia di offuscare la sostanza: che non sta nella scelta incongrua fra stato e migranti ma nell’accettazione da parte della cittadinanza di un numero crescente di migranti. La comune sensibilità non distingue facilmente fra migranti economici e richiedenti asilo perché in fuga da guerre e persecuzioni.
Le persone che giungono sul nostro territorio appaiono tutte indistintamente bisognose di cure e se non le ricevono nei modi dovuti (e poi da parte di chi?) finiscono per affollare le nostre strade, con ciò spingendoci a modificare l’iniziale spirito di accoglienza in un senso di diffidenza se non di timore.
Questo senso può degenerare, persino nelle persone di buona volontà, in ripulsa razzista. Aiutiamoli a casa loro purché non vengano da noi: è la risposta meno contundente che si ascolta in giro.
Non aiuta a comprendere il fenomeno la notizia che degli stranieri, nella circostanza dei marocchini, abbiano perpetrato l’attentato di Barcellona. Non si trattava di migranti dell’ultima ora ma di immigrati stanziali, che si riteneva integrati e che al dunque hanno mostrato di non esserlo affatto. Le città europee scoprono di doversi confrontare con il problema della convivenza che pensavano proprio di mondi lontani.
L’integrazione dei neri d’America è sempre presente (si pensi ai fatti di Charlottesville), ma appartiene ad un paese che comunque ha eletto e rieletto (e largamente rimpiange) un Presidente nero. Ecco invece che il tema dell’integrazione si affaccia alle nostre porte. Occorre affrontarlo con determinazione e senza incongrui automatismi. La strategia mediterranea del Viminale sta portando qualche frutto. I flussi, che in estate conoscono il picco più alto, si stanno riducendo.
I libici, nelle loro molteplici espressioni, stanno collaborando. Certo, collaborano alla loro maniera. Fioccano le corrispondenze di migranti trattenuti in Libia in maniera brutale. Chi lamenta quei trattamenti non è però in grado di sostenere un’alternativa se non quella di riaprire i porti agli arrivi indiscriminati.
Lo stesso accadde nei primi tempi dell’intesa UE – Turchia. L’intesa ha bloccato l’afflusso di migranti verso la Grecia e di là verso l’UE, ha inflitto trattamenti ai fuggitivi in linea con le tradizioni turche.
Nessuno in Europa se n’è curato eccessivamente. La Germania, meta finale delle fughe, tira un sospiro di sollievo in vista delle elezioni di settembre. La destra accusava la Cancelliera di essere troppo generosa in fatto di accoglienza: l’avrebbe pagata cara nelle urne.
Così probabilmente non sarà se l’intesa con la Turchia reggerà. La Signora Merkel si limita a fronteggiare le bordate del Presidente Erdogan, che invita i residenti turchi in Germania a non votare per lei. Ma quanti di loro, avendo il diritto di voto, voterebbero per la coalizione CDU – CSU?
di Cosimo Risi
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