Secondo gli analisti del presidente, il piano del suo predecessore costerebbe agli States migliaia di posti di lavoro e 33 miliardi di dollari.
Tocca dunque a Scott Pruitt, capo della Agenzia Federale dell’Ambiente, provvedere alla sua rottamazione. L’America potrà così rilanciare la industria del carbone, ma nel contempo probabilmente infliggerà un durissimo colpo all’ambiente.
Quegli impianti sono considerati i maggiori produttori dei gas serra, principali responsabili dei cambiamenti del clima e del suo impazzimento che in estate hanno mietuto il più alto numero vittime proprio negli Stati Uniti.
Si prefigura la inquietante ipotesi di altri uragani, come Irma, che a settembre ha messo letteralmente inginocchio la Florida e non solo, provocando morti e feriti, allagamenti, innumerevoli sfollati e città devastate per sempre.
Ma molti americani, come Trump, forse non credono che tutto possa essere collegato proprio alle emissioni da combustibili fossili, quali il carbone, su cui ora gli USA puntano di nuovo.
Il carbone è ancora il principale combustibile per la produzione di energia elettrica in tutto il mondo, perché è abbondante e soprattutto economico. Da esso viene il 40% della energia elettrica mondiale e lo si usa per produrre il 70% dell’acciaio sul pianeta. Paesi emergenti, come la Cina e l’India, di certo non ci rinunceranno facilmente.
Oltre a produrre più CO2 di tutti gli altri combustibili fossili, il carbone causa anche più polveri sottili, le PN 2,5, particolato altamente nocivo per il sistema respiratorio e cardiovascolare, responabile di oltre 3 milioni di morti premature nel mondo.
Peraltro, il biossido di titanio – naturalmente presente nel carbone – secondo uno studio di recente pubblicato su “Nature”, libera, attraverso una cosiddetta fase magnetica incidentale, dei sub ossidi di titanio, ovvero nano materiali di cui va ancora indagata la reale tossicità a lungo termine.
editoriale a cura di Tony Ardito, giornalista
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