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La Catalogna se ne va o forse no. Il balletto delle separazioni (di Cosimo Risi)

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E’ tempo di separazioni. Si prenda il caso della Catalogna. La regione autonoma di Spagna proclama l’indipendenza, il destituito governo regionale medita di riunirsi in esilio nella vicina Perpignan e di là meditare il ritorno nella Barcellona liberata e resa repubblicana.

L’indipendentismo catalano non è solo lotta al centralismo castigliano, è contestazione della monarchia a favore della repubblica, è uso della lingua catalana invece che del castigliano, è la dinamica e mediterranea Barcellona a fronte dell’austera e continentale Madrid.

Barcellona è meta del turismo tutto l’anno. Ci vai per le costruzioni di Gaudì, per Las Ramblas che hanno già archiviato l’attentato terroristico, per Barceloneta, per i ristoranti che anche dopo il ritiro del caposcuola Ferran Adrià restano al vertice delle guide mondiali. Ci vai perché sogni che un giorno Napoli somigli più a Barcellona che ad Alessandria d’Egitto.

Madrid  commissaria la Catalogna inviando come “viceré” la pasionaria del centralismo spagnolo. Una doppia misura avverso il governo sedicente in esilio: ti esautoro e con la tua acerrima avversaria.  A Madrid tutti o quasi sono d’accordo sull’adozione delle misure contemplate dalla Costituzione, a cominciare dal Re Felipe per finire con le principali forze politiche spagnole, che trovano l’accordo sulle misure del Governo in un raro esempio di convergenza dopo una serie di elezioni generali. A Barcellona invece il panorama è frastagliato.

La strana convergenza fra destra e estrema sinistra sulla parola d’ordine dell’indipendenza non trova d’accordo le forze politiche tradizionali e buona parte della popolazione. Il contestato referendum ha prodotto la vittoria degli indipendentisti su una base ridotta di votanti. La maggioranza silenziosa, se si fosse espressa, avrebbe probabilmente optato per il “remain”.

Lo spettro di Brexit si aggira per l’Europa e induce Bruxelles a rifiutare l’indipendenza catalana. Le argomentazioni giuridiche si sommano alle politiche. La Spagna deve restare unita, e se proprio la Catalogna dovesse scegliere l’uscita, essa uscirebbe anche dall’Unione europea.

Sarebbe un paese terzo che dovrebbe  avviare la procedura d’adesione. Poiché  il relativo negoziato si decide all’unanimità, l’adesione non verrebbe mai approvata dalla Spagna. Fu lo stesso discorso che indusse la Scozia, prima di Brexit, a votare per restare nel Regno Unito. Va bene l’indipendenza, non vanno bene il recesso dall’Unione e la rinuncia all’euro.

I fautori dell’indipendentismo sollevano la questione della autodeterminazione dei popoli, della legittima ricerca delle radici nella distinzione per gruppi linguistici e culturali (non etnici, almeno nel caso catalano).  Sdrammatizzano quanto accade a Barcellona col pacifico precedente della separazione della Cecoslovacchia in Cechia e Slovacchia. Omettono di ricordare che un’altra separazione in Europa fu efferata: quella della Jugoslavia.

Stiamo ancora cavalcando l’onda lunga della fine della guerra fredda e della dissoluzione dell’impero sovietico. Con l’Europa congelata in blocchi contrapposti, qualsiasi movimento in seno all’uno e all’altro era monitorato dalle potenze egemoni, che non amavano le novità e ne impedivano il manifestarsi. Basti ricordare gli interventi dell’Armata Rossa nei “paesi fratelli”. E’ di questi giorni la pubblicazione degli atti americani di quanto Casa Bianca e Dipartimento di Stato diffidavano dell’approssimarsi del PCI al potere in Italia.

L’Europa ora è libera di esprimersi, peccato che non trovi l’armonia nel movimento. “Prova d’orchestra” di Federico Fellini è una parabola adatta  al caso di questi giorni.

Cosimo Risi

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