Riina stava scontando 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi, quella di viale Lazio del 1969, quelle del 1992 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sua la scelta di lanciare un’offensiva armata contro lo Stato nei primi anni ’90. Mai avuto un cenno di pentimento, irredimibile fino alla fine, solo tre anni fa, parlando in carcere con un co-detenuto, si vantò dell’omicidio di Falcone. Intanto, continuava a minacciare di morte i magistrati, in particolare il pubblico ministero del processo “Trattativa” Nino Di Matteo.
Il quotidiano La Stampa.it ne ha tracciato il profilo
Con Bernardo Provenzano, morto il 13 luglio 2016, formava la terribile e sciagurata coppia di Cosa nostra. Raffinati e brutali strateghi della ferocia. Totò Riina è l’immagine più cruda e netta dell’anima nera e stragista della mafia, di cui era ritenuto ancora il capo indiscusso.
LA SANGUINOSA ASCESA CORLEONESE
Nato a Corleone, cuore antico e profondo della Sicilia, in una famiglia di contadini il 16 novembre 1930, si legò presto al capomafia Luciano Liggio e a 19 anni fu condannato ad una pena a 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo. Da fedelissimo di Liggio prese parte alla sanguinosa faida contro gli uomini di Michele Navarra. Nel 1969 avviò la sua lunga latitanza che diede inizio alla sua ascesa, sancita ancora nel sangue, il 10 dicembre, con la «strage di Viale Lazio», che doveva punire il boss Michele Cavataio. Sempre più influente, sostituì spesso Liggio nel «triumvirato» di cui faceva parte assieme ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti.
Risale a quegli anni l’asse con il loro “compaesano” Vito Ciancimino, il sindaco mafioso di Palermo, con cui mise le mani nella politica e nell’amministrazione degli affari comunali. Nel 1971 fu esecutore materiale dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio, attraverso il quale stabilì rapporti solidi con `Ndrangheta di Tripodo e i camorristi napoletani affiliati a Cosa nostra dei fratelli Nuvoletta.
Dal ’74 reggente della cosca di Corleone, sempre più strategica negli assetti di Cosa nostra, scatenò la seconda guerra di mafia che vide dal maggio 1981 l’uccisione per mano dei boss a lui fedeli, di oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti, mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta lupara bianca. Un vero massacro fino a quando si insediò nel 1982 una nuova «Commissione» di stretta osservanza corleonese, composta da capimandamento fedeli a Riina e da lui guidata.
LA STRATEGIA POLITICA
Principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto solido con Salvo Lima.
Seguì una serie di omicidi politici: il 9 marzo 1979 Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana; il 6 gennaio 1980 fu ucciso il presidente della Regione delle carte in regola Piersanti Mattarella; il 30 aprile 1982 il leader del Pci siciliano Pio La Torre.
SCHIAFFO AL PADRINO E LA `CATENA DEL TRITOLO´
Un duro colpo il potere di Riina lo subì il 30 gennaio 1992 quando la Cassazione – nonostante i tentativi di cambiarne le sorti – confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta: uno schiaffo al mito dell’impunibilita’ di Cosa nostra. Il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso: si era alla vigilia delle elezioni politiche e, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo. A maggio l’attacco frontale allo Stato. La strage di Capaci nel quale fu ucciso Giovanni Falcone. Cinquantasette giorni dopo toccò a Paolo Borsellino, in via D’Amelio. Nel ’93 le stragi del Continente. Una «catena del tritolo» oggetto di indagini anche da parte della Procura di Firenze, su cui si è fatta maggiore chiarezza dopo depistaggi e silenzi.
TRATTATIVE E PAPELLI. LA CATTURA
In questo periodo sarebbe iniziata la presunta trattativa, al centro di un processo il cui primo grado è alle fasi conclusive. Cruciale il ruolo di esponenti dello Stato e Vito Ciancimino. Riina rispose alla richiesta di un accordo con il famoso Papello, finalizzato a ottenere la revisione del maxiprocesso, ad ammorbidire le condizioni dei detenuti, cancellazione della legge sui pentiti. Fu arrestato il 15 gennaio del 1993 dalla squadra speciale dei Ros guidata dal Capitano Ultimo, davanti alla sua villa, in via Bernini. Mentre restava libero Bernardo Provenzano, il `ragioniere´ di Cosa nostra, preso solo l’11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza.
IL GRANDE DEPISTAGGIO
Un periodo oscuro e torbido di contatti obliqui tra pezzi di Stato e della criminalità organizzata rintracciati a cavallo delle stragi. Ed è stato necessario un quarto di secolo per diradare parte delle nebbie sulla verità delle stragi, perché Cosa nostra ha agito per compartimenti stagni. Nessuno dei primi collaboratori di giustizia, faceva parte del mandamento di Brancaccio. Nel 2008 però ecco Gaspare Spatuzza, poi il pentimento di Fabio Tranchina e per ultimo quello di Cosimo D’Amato. Alle loro rivelazioni si sono aggiunti riscontri formidabili.
Ad aprile scorso è arrivata la sentenza del quarto processo sulla strage Borsellino: un punto fermo dopo depistaggi, falsi pentiti, ombre di mandanti esterni. Un attentato micidiale eseguito dalla mafia, ma maturato in un clima di veleni anche fuori Cosa nostra; e segnato dalle inquietudini di Paolo Borsellino che si disse – sconvolto, incredulo e in lacrime – «tradito da un amico». Anche qui l’irruzione di Gaspare Spatuzza ha consentito di aprire una nuova stagione giudiziaria e sgretolato le certezze arrivate dai precedenti processi per l’attentato che avevano resistito a tre gradi di giudizio.
Spatuzza si è autoaccusato del furto della Fiat 126, utilizzata come autobomba. A decidere la strage di via d’Amelio, così come quella di Capaci, è stato Totò Riina, in occasione degli auguri di Natale del 1991, nel corso di una riunione della Commissione provinciale.
A portare a compimento la strage di via d’Amelio, il mandamento di Brancaccio, considerato il filo conduttore della stagione stragista conclusasi nel continente. Ad azionare il telecomando il boss Giuseppe Graviano. Anche la sentenza del maxiprocesso, devastante per Cosa nostra, sarebbe una delle cause scatenanti. Cosa nostra aveva attivato tutti i canali istituzionali disponibili per arrivare all’aggiustamento finale della sentenza. Ma si era sentita abbandonata dai suoi referenti istituzionali. Altro fattore sarebbe quello secondo il quale Borsellino sarebbe stato a conoscenza dei contatti tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra e si sarebbe opposto.
RESTANO I MISTERI
Dalle carceri di massima sicurezza ha continuato ad essere un simbolo suggestivo del potere di Cosa nostra, un riferimento concreto per l’organizzazione in difficoltà. Da lì ha continuato anche al lanciare editti di morte, come – nel novembre 2013 nei confronti del magistrato Nino Di Matteo. Nel frattempo le sue condizioni di salute si sono aggravate fino al coma farmacologico. Rimangono a lui legati tanti misteri, della mafia e non solo. La presenza, a esempio, di eventuali mandati esterni e il coinvolgimento dei servizi segreti rimane al momento solo un’ipotesi investigativa, non provata, ma su cui non si molla la presa. Il procuratore di Caltanissetta Bertone ha avvertito che «ci sono ancora buchi neri». Il riferimento è anche all’agenda rossa del giudice Borsellino, mai trovata, e alle indicazioni fornite in aula da un ufficiale dei carabinieri: «Elementi che pongono la necessità di riaffrontare questo tema, per una ulteriore attività che dovrà essere svolta».