Innanzitutto, occorre che ne discuta non in linea solo teorica, quanto piuttosto in concreto; in modo da evitare il ricorso a posizioni che potremmo definire u-topiche, dal greco οὐ “non” e τόπος “luogo”; quindi “luogo che non esiste”. E tuttavia, è senz’altro importante partire da una definizione che il celebrato psicanalista e sociologo tedesco E. Fromm ha dato del socialismo ed esattamente questa: “il socialismo o è coscienza dell‘utopia o è nulla”. Nell’ottica di un universo “politico” almeno bi-dimensionale – alimentato dal conflitto sociale di predatori e prede, ricchi e poveri o, meglio forse a dirsi, padroni o servi -, il capovolgimento dei rapporti di forza è da intendersi in prospettiva quale fede nel cambiamento e quindi in tal senso un’utopia, attualmente non presente, che occorrerebbe realizzare. Un luogo, piuttosto una “dimora”, alla maniera heideggeriana, che è necessario e quindi necessita “abitare”.
La proposta concreta, che qui intendo discutere, è quella del cosiddetto Reddito di base, alla stregua del modello proposto da due studiosi contemporanei, il filosofo economista e giurista Philippe Van Parijs e il professore ed economista Yannick Vanderborght, autori di un corposo saggio edito in Italia da Il Mulino, nell’ottobre ultimo scorso, per l’appunto con il titolo Il reddito di base. Quanto invece allo scenario futuro – che prevedo quale sviluppo possibile rispetto all’attualità del presente -, è lo scenario che Dario Smizer, in un articolo di commento al saggio di Filosofia futura (1989) di Emanuele Severino, così sinteticamente descrive: “Severino ha parole sferzanti nei confronti dell’Apparato.
Forse eccessive. Esso si propone incessantemente di incrementare la propria potenza. Nemmeno le più lapalissiane contraddizioni riescono a fermare la sua corsa. Anche di fronte al possibile collasso di un sistema energivoro esso non smarrisce la sua fede nella possibilità del dominio. Lo scopo del dominio è la realizzazione di un Paradiso artificiale nel quale eliminare definitivamente la conflittualità religiosa e ideologica e soddisfare i bisogni dell’intera umanità, sia “individuali” che “spirituali””[1].
E tuttavia, l’orizzonte di Smizer qui preannunciato si caratterizzerebbe ancora come un orizzonte “umano”, proprio dell’uomo; ma, che non esclude un luogo, e quindi una dimora dell’abitare dell’uomo, e quindi il “de-stino” (lo stare dell’essere e l’essere dello stare medesimo) di ogni uomo, che non sia piuttosto “post-umano”. Di guisa che l’orizzonte rappresenta piuttosto il “limite”, che non interessa neanche se sia necessario o meno oltrepassare, nel cui ambito, all’interno del corrispondente cerchio dell’essere, si snodano i “sentieri” dell’attuale “via” scientifico-tecnologica dell’essere.
Nell’articolo, Smizer inoltre conclude, sostenendo che: “Il paradiso scientifico non è “unidimensionale” (l’unidimensionalità che, per Heidegger e Marcuse, è la caratteristica della civiltà della tecnica), ma può allargare continuamente il senso della felicità”[2]. La conclusione, da un punto di vista logico, è tuttavia arbitraria.
L’“unidimensionalità”, che molti paventano, potrebbe risultare l’esito finale del percorso, ma potrebbe anche non esserlo; potrebbe “allargare continuamente il senso della felicità”, ma potrebbe anche non farlo. E tuttavia, resta che “l’unidimensionalità” costituirebbe presuntivamente l’esito finale di un processo “guidato” dalla Tecnica, per mezzo del quale l’“uomo” perverrebbe alla forma più estrema o completa di “alienazione”, intesa per l’appunto come “prestazione di attività che non hanno il proprio scopo in sé stesse”[3]. E tuttavia ancora, direbbe F. Nietzsche, che il linguaggio di cui qui ci serviremmo “è umano, troppo umano” e quindi incapace di prefigurare uno scenario futuro che, viceversa, potrebbe non essere, parafrasando il detto medesimo, né umano né troppo umano.
Viviamo, in effetti, in un sistema (di derivazione platonica) che ritiene l’uomo – e quindi gli attribuisce una “natura” sua peculiare – “immagine e somiglianza” di un idealtipo che nel discorso di fondazione “religioso” proviene dal dio, nel discorso di fondazione “politico” scaturisce dal modello di società predeterminata. Un modello identitario, erroneo, che non corrisponde affatto alle dinamiche viceversa naturali dell’esistente, che sono determinate dal “caos”-delle origini e dal “pensiero iniziale”, di cui dice Heidegger in merito soprattutto al pensiero dei fisici “presocratici”, e in primis al pensiero di Parmenide.
Nella prospettiva, già per molti versi avanzata, di “un mondo nuovo, che, ad esempio, è il nostro mondo della connessione (reale e virtuale) o, come dice Varela, dell’“interdipendenza”, “questa interdipendenza si rivela nella misura in cui in nessun punto è possibile cominciare con la pura descrizione dell’uno o dell’altro, e dovunque si scelga di iniziare ci si trova come di fronte a un frattale, che riflette esattamente l’atto che compio; quello di descriverlo.
Mediante questa logica, ci poniamo in rapporto col mondo come con uno specchio, che non ci dice come il mondo è; e neppure come non è. Ci rivela solo che è possibile essere nel modo in cui siamo e agire nel modo in cui abbiamo agito. Ci rivela che la nostra esperienza è praticabile””[4].
E purtuttavia, accettando anche noi d’instradarci più o meno realisticamente sulla via societaria, condivisa dagli autori della proposta del reddito di base che qui dobbiamo ancora dettagliare, quel che occorre precisare è che, come scrivono i medesimi, l’approccio in questione assume caratteristiche ben precise che scartano tuttavia l’ipotesi “libertaria”, che invece condivido: “(Il libertarismo) infatti, inteso come approccio filosofico distinto, presuppone per definizione un sistema di diritti individuali che precedono le istituzioni e che queste ultime devono limitarsi a rispettare e tutelare. Al pari di altri approcci liberal-egualitari, il nostro non presuppone tali vincoli preistituzionali …”[5]. E questo, a mio parere, e come meglio vedremo in seguito, rappresenta senz’altro un deficit della proposta.
Ma, ancora: escludere l’ipotesi libertaria, ha una valenza di scelta etica, come pare intendono gli autori? Io, direi di no. E, che viceversa, si tratta di un’ipotesi che caratterizza un approccio “scientifico” e che quindi, invece che rispondere a un fattore di “desiderabilità” etica, ha a che fare con la “necessità storica”, nel senso marxiano e in contrapposizione al “socialismo utopistico” di Charles Fourier[6].
Nei millenni trascorsi, il modello di società ovunque impostosi, pur assumendo le forme più varie, è riconducibile a una matrice unitaria, che è rappresentata dal principio della divisione del lavoro. Infatti, le stesse mitologie religiose – che, secondo Platone (cfr. Il Politico), hanno assolto allo scopo d’introdurre il discorso della “politica”, distinto dal “politico” al quale tuttavia perviene, e che narrano di un’età dell’oro (o paradiso terrestre) originaria – descrivono la “condizione” (il significato del termine è ben illustrato da H. Arendt in Vita activa e validamente ripreso da J.F. Lyotard nella sua opera più famosa, La condizione postmoderna) del dio quale unica ed eternamente oziosa, a differenza della condizione umana – viceversa “sociale” (maschio e femmina, oltre che finalizzata alla procreazione) – e del dovere etico-morale (o compito-obbligo giuridico) assegnato all’uomo, indifferentemente, di “custodire e coltivare” il giardino dell’Eden (o ambito dello Stato).
Questa interpretazione, fonda il percorso dell’intera filosofia “tradizionale”, per intenderci quella postsocratica, a partire da Platone e Aristotele. In particolare, è a quest’ultimo che dobbiamo la costruzione del principio di base societaria – che, in epoca moderna, G. W. F. Hegel contraddistinguerà attraverso l’esperienza familiare, associativa e in fine statuale: “l’uomo è un animale sociale”.
E dunque, brevemente ricapitolando, il fondamento del sistema “politico”, di ogni sistema “politico”, per così dire, resta il Lavoro, con la L maiuscola; almeno fino a quando la “postmodernità”, capovolgendo ogni paradigma della tradizione, ha dimostrato che sia viceversa possibile prescindere da qualsivoglia metanarrazione, diventando pertanto di nuovo usuale, come in origine, discorrere senza l’uso delle maiuscole.
Ma, se il lavoro resta il fondamento del sistema “politico”, il corrispondente principio della divisione (del lavoro) caratterizza in definitiva il tipo di sistema medesimo, da un punto di vista sia “formale”, ovvero costituzionale, che “sostanziale”. E tuttavia, esiste la possibilità che il sistema, oltrepassando la dimensione religiosa-politico-religiosa, si orienti verso altre forme di organizzazione, per così dire brevemente, e almeno inizialmente, meno dedite alla produzione e più dedite al consumo?
Tralasciando per ora l’ipotesi che, in un futuro più longevo, il modello operi attraverso la figura unica di un “consumatore” che riproduca fedelmente la figura del “raccoglitore”, non ancora erettosi al livello del “cacciatore-predatore”, delle origini della specie che diciamo “umana”.
In effetti, è proprio ciò che è almeno in parte accaduto più di recente in alcune società ricche dell’Occidente, ma non solo, e in particolare mi riferisco a quelle aree, non a caso, chiamate “paradisi fiscali”.
In Europa – dopo la faticosa esperienza del “welfare state” (stato di benessere), promossa a fine Ottocento dal cancelliere O. von Bismarck, e le reazioni nostalgiche di una politica “imperialista” ispirata e improntata al casus belli -, la più recente epoca della globalizzazione economico-finanziaria ha introdotto un modello di organizzazione che il contemporaneo più noto politologo statunitense P. Khanna definisce “tecnocratico”, a valere attualmente soprattutto nello stato della Svizzera, ma da circa otto secoli ininterrottamente, e di Singapore, per l’appunto da circa vent’anni.
In pratica, si tratta di un modello valido, anche se talvolta dimostratosi non efficace. Ma, pur sempre, valido e verso il quale, occorre precisare, come i fatti semplicemente dimostrano, storicamente tendiamo. Questo argomento della validità, è per me altresì comprovato da due fattispecie essenziali, che insieme possiamo verificare.
La prima, ma seconda in ordine di tempo, è il fatto necessario che diciamo è l’autocritica dell’elite, che comincia finalmente ad affiorare in ambito europeo a seguito della Brexit. A tale proposito, il noto commentatore inglese R. Peston ha dato di recente alle stampe un libro, non ancora tradotto, dal titolo in forma di acronimo WTF che sta per What the fuck, più o meno: Ma che c… Egli, in una più recente intervista, ha detto: “… puoi provare un leggero piacere a pensare che la globalizzazione ha aiutato i poveri in Cina, ma se le tue industrie sono state distrutte, se il tuo lavoro è in un call center o alla guida di un taxi, allora che cos’ha fatto la globalizzazione per te? La risposta è: niente”[7].
La seconda, ma prima in ordine di tempo, la crisi della cosiddetta “sinistra” tradizionale. Che, a mio modestissimo parere, trova spiegazione nella rappresentazione siffatta – che, al contrario, non considero affatto irreale, anzi pragmatica e realistica – del filosofo, anch’egli francese, J. C. Michéa, il quale emblematicamente scrive: “Ebbene, è proprio questa rappresentazione irreale (che la filosofia contemporanea – da Sartre a Luc Ferry – ha spesso contribuito a legittimare) di un individuo che si presuppone possa accedere alla libertà vera (…) solo a partire dal momento in cui – essendosi definitivamente slegato da tutte le sue ‘radici’ e da tutte le sue originarie definizioni – potrà finalmente agire per ricostruirsi ‘liberamente’ e nella propria interezza, ciò che i fondatori del socialismo non smettono di denunciare come il fondamento stesso del nuovo ordine capitalista (…). Ed è in primo luogo perché si basavano in modo esplicito sulla teoria aristotelica dell’uomo come ‘animale politico’ (…) che quei primi socialisti si erano trovati anche capaci, fin dall’inizio del XIX secolo, di cogliere sotto l’elogio liberale dell’individualismo assoluto e dello sradicamento completo (…) la vera chiave filosofica di quella dinamica rivoluzionaria del capitalismo il cui orizzonte ultimo non può che essere, per riprendere le formule del giovane Engels, l’‘atomizzazione del mondo’, la ‘guerra di tutti contro tutti’ e la ‘decomposizione dell’umanità in monadi ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare (…)”[8]. Ma, tant’é. E aggiungo: come annoterebbe Parmenide, che abbiamo già incontrato nelle vesti del più illustre fisico presocratico della tradizione.
Dopo questa lunga ma necessaria digressione, torniamo ora alla proposta, nuova, del Reddito di base, così come formulata brevemente in dettaglio dagli autori: “E’ un diritto strettamente individuale, indipendente dalla composizione del nucleo familiare; è universale, non vincolato a una verifica della condizione economica; ed è libero da obblighi da assolvere in cambio, cioè da prestazioni lavorative o dalla dimostrazione della disponibilità al lavoro (…)un reddito incondizionato (inteso) in questo triplice significato”[9].
Strettamente individuale, significa pertanto anche sganciato da un legame “sociale” di tipo familiare, e quindi un diritto, “naturale” o “positivo” poco importa, che spetti a ogni individuo in quanto tale. E quindi, spetterebbe a chiunque, indipendentemente dalla rispettiva condizione economica reddituale, sia a chi sia in possesso di reddito che a chi invece non ne possieda di alcun genere. E spetterebbe a livello globale. Il che non significa che l’importo debba essere uguale per tutti. Esso potrebbe variare, all’interno di ogni Stato nazionale, in base all’età; e, come propongono gli autori, a seconda del paese interessato, corrispondere comunque a una somma di danaro disponibile, il cui importo sia universalmente pari, per esempio, a un quarto del PIL (nazionale) pro capite.
La terza caratteristica, che sarebbe quella di essere “libero da obblighi”, ha trovato e trova invece finora maggiori resistenze. Sul piano, tuttavia, sia propriamente “etico” che “politico”. E quindi, rispetto a un immaginario di un passato che sembra non passare e che invece il presente si propone, almeno tendenzialmente, di oltrepassare.
Nel saggio, non a caso la parte centrale si snoda attraverso un percorso che, in sequenza: dal punto di vista etico, considera la “preistoria” del meccanismo di assistenza privata, la “storia” dell’assistenza pubblica a partire dalla vicenda delle Poor Laws inglesi e infine la nascita della previdenza sociale; dal punto di vista politico, ma più strettamente economico, analizza la possibilità di garantirne (reddito di base) la misura mediante il meccanismo classico dell’imposizione fiscale progressiva, e quindi un meccanismo di prelievo forzoso legato ancora per la maggior parte al reddito da lavoro prodotto.
Questo profilo, che appare ancora determinante, è quello che presenta il rischio maggiore e quindi attira le maggiori critiche. Scrivono infatti gli autori: “Questo rischio dipende – come indicano economisti critici del reddito di base – non tanto dalla libertà da obblighi del reddito minimo garantito a tutti, ma soprattutto dalla tassazione che il suo finanziamento richiede. La forma più diretta che questa tassazione può assumere è l’imposta sul reddito personale, che è diventata essenzialmente un’imposta sul reddito da lavoro. E’ il profilo fiscale richiesto da un consistente reddito di base che induce a metterne in dubbio la sostenibilità”[10]. Questione che qui non tratteremo e che viceversa viene affrontata dagli autori nel corso dell’intero sesto capitolo.
Qui, invece, mi preme affrontare la questione del reddito di base “libero da obblighi” in ordine al profilo filosofico che vi attiene strettamente. Un reddito di base, che sia individuale e universale, ma anche libero da obblighi dipenderebbe quindi pur sempre da un meccanismo “sociale” di tassazione basato essenzialmente sul reddito da lavoro. E quindi, a fronte di un tale rischio, per giunta sistemico, è possibile invece pensare a una forma idealtipica di finanziamento del Reddito di base che prescinda dal lavoro quale fonte indiretta e dalla tassazione quale meccanismo diretto di finanziamento?
Riprendo allora un’affermazione di Galbraith, citata dagli autori, “negli ultimi dieci anni (n.d.r.: 1962-1972), l’assegnazione ai poveri di una fonte regolare di reddito, nel quadro di una politica sociale di ampio respiro, ha finito con l’apparire come una misura sempre più pratica. L’idea che il reddito sia un rimedio per l’indigenza possiede una sua forza immediata di convinzione. Come ho dimostrato altrove, questo rimedio potrebbe anche ridurre i problemi di direzione economica, riducendo il ricorso alla produzione come fonte di reddito”[11]. L’aspetto più interessante che qui emerge non è tanto l’alternativa del reddito di base al reddito da lavoro, quanto alla produzione (che è fonte di reddito) e al conseguente modello sistematico keynesiano di “piena occupazione”. L’attuale sviluppo del capitalismo economico-finanziario lascia già oggi intravedere, su scala globale, la possibilità di un regno futuro dell’automazione. Al punto che già oggi c’è chi discute l’ipotesi di tassare il lavoro dei robot. E’ quindi possibile che il nuovo sistema di automazione del lavoro generi nel contempo un nuovo e più ampio e diffuso scontro “sociale”; così che il raffronto tra i rispettivi costi-opportunità potrebbe anche rischiare di travolgere l’intero sistema, configurabile alla stessa stregua dell’Apparato scientifico-tecnologico di cui si è già detto in apertura.
In conclusione, è mia opinione che – nel regno dell’automazione, da cui tutti gli esseri umani potrebbero trarre beneficio perché definitivamente affrancati dal lavoro e dalla produzione – l’opzione del Reddito di base consentirebbe a tutti i moderni raccoglitori-consumatori di soddisfare almeno i bisogni ritenuti storicamente primari senza intaccare i privilegi dei cacciatori-predatori delle origini.
Angelo Giubileo
[1] (http://digilander.libero.it/moses/severino04.html)
[2] Ibidem
[3] Il reddito di base, cit., p. 203.
[4] P. Watzlawick in A. Giubileo, Sulla natura delle cose, 2016
[5] Il reddito di base, cit., p. 200, s.
[6] Ibidem, p. 201
[7] In La Lettura, 10/12/2017
[8] J. C. Michéa, I misteri della sinistra, p. 32, s.
[9] Op. cit., p. 18
[10] Ibidem, p. 215
[11] Ibidem, p. 145