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Anno vecchio, anno nuovo (di Angelo Giubileo)

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L’anno vecchio se ne va e l’anno nuovo subentra, come sempre accade secondo il ciclo naturale delle stagioni.

In politica, una stagione qui da noi forse si chiude e se ne riapre speriamo un’altra fatta di consenso legittimo e democratico. Torniamo al voto di fine legislatura, dopo che molti analisti e commentatori hanno già dichiarato la “fine” della “Seconda Repubblica”. Senza che sia stato ancora chiarito cosa in effetti sia stata e abbia rappresentato.

Dal 1992 a oggi, 25 anni circa trascorsi, si sono succedute 7 legislature e 14 governi. In raffronto ai dati paralleli della “Prima Repubblica” – 46 anni circa, 1 assemblea costituente, 10 legislature e 28 governi -, emerge il dato di sintesi che, in media, mentre nella Prima una legislatura durava poco più di 4 anni e mezzo e un governo 1,6 anni; nella Seconda, e sempre in media, ogni legislatura è durata 3 anni e mezzo e ogni governo analogamente 1,7 anni, cioè in media poco più di un anno e mezzo. La maggior parte dei politici, vecchi e nuovi, ha sostenuto e continua a sostenere che quel che soprattutto occorra al paese sia la stabilità della legislatura e del governo.

Sappiamo tutti che la Prima Repubblica ha contato in genere stabilmente sull’asse della Democrazia cristiana, una specie di “partito della nazione”, la cui azione è stata inoltre supportata anche da altri piccoli partiti, a turno di destra o di sinistra. Quindi, non a caso, l’immagine del “partito della nazione” era stata riposta al centro della narrazione del paese dal partito e dal governo di Matteo Renzi, fino all’esito loro avverso del referendum costituzionale del 4 dicembre dello scorso anno.

E pertanto, se siete ancora alla ricerca di una ragione – un’unica ragione che più di tutte le altre spieghi i fatti accaduti, non solo negli ultimi 25 anni, ma durante il corso di tutta la storia repubblicana -, assumo qui l’ardire di indicarvene piuttosto un’altra, che ritengo sia quella della continuità tra vecchie e nuove generazioni di padrini.

Il termine “padrino” è d’uso in più ambiti, religioso, politico, sociale e assume un’ampia valenza di significati; anche dal punto di vista antropologico, nel qual caso, secondo il vocabolario Treccani, il padrino rappresenta “il membro adulto di una comunità (detto anche compadre) cui venga affidato un ruolo di patrocinio rituale nei confronti di un giovane”. E quindi l’Italia, non a caso, è il secondo paese più vecchio al mondo, superato in questa statistica solo dal Giappone. E se il dato vi appaia poco significativo, allora considerate anche questi altri che seguono.

Tra i grandi paesi produttivi, dal 2000 al 2015, l’Italia è stato il paese con la più bassa crescita, in media pari a 0 (zero), seguito a ruota dal Giappone con un dato pari allo 0,8 di crescita media. E inoltre, se il Giappone risulta da tempo il paese con il più grande tasso di debito pubblico rispetto al PIL, oggi circa il 250%; l’Italia è da quasi tre decenni che deve affrontare una seria e persistente crisi del proprio debito pubblico, oggi oltre il 130% del PIL.

Nient’altro che “il grave peso” che i vecchi “padrini” continuano a scaricare sui giovani “figliocci”. Il vocabolario Treccani, per il termine figlioccio, dà un’unica definizione, all’apparenza di carattere quasi esclusivamente religioso: “Chi è stato tenuto a battesimo (o a cresima), rispetto a chi ve l’ha tenuto (compare o padrino, e comare o madrina), assumendosi con ciò l’obbligo morale di assisterlo spiritualmente e, se necessario, anche materialmente”.

Felice anno nuovo a tutti!

                                                                                                                                                             Angelo Giubileo

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