Scontrini delle spese di rappresentanza e di viaggio, rimborsi che andrebbero restituiti (e perché se il titolare ne ha titolo?) e sono invece trattenuti, collaboratori ingaggiati per uno scopo e dirottati ad un altro.
Ne esce l’idea che la disinvoltura nello spendere sia la regola e non l’eccezione, di qui la conclusione che la politica è un esercizio sterile per gli onesti e tanto vale rinchiudersi nel privato delle tradizioni familiari e familistiche, che sono anche le peggiori perché lasciano l’etica fuori dalla porta.
Qualcuno arriva a ricordare l’Etica di Aristotele che, avendo scritto di tutto, si presta a qualsiasi citazione. Aristotele lasciò il discepolo Alessandro Magno perché non ascoltava i suoi precetti ed infatti Alessandro bruciò rapidamente la sua meteora.
In Medio Oriente vale la regola non scritta che “the winner takes it all”, il vincitore arraffa tutto. Il partito (il gruppo, il leader) vincente nella competizione elettorale prende tutto il potere e non si cura di fastidi come il rispetto dei diritti dei gruppi minoritari. Una sorta di premio assoluto di maggioranza consente al vincitore di egemonizzare il gioco politico con qualsiasi mezzo.
La minoranza non gode del diritto, da noi costituzionalmente garantito, di battersi per divenire maggioranza con mezzi istituzionali, ma è costretta in posizione talmente subordinata che solo un ribaltamento brusco può portarla al potere. Raggiunto il quale, a sua volta, applicherà la regola aurea del “prendi tutto”.
La democrazia israeliana costituisce l’eccezione alla prassi. I governi si succedono per via elettorale, la minoranza ha la possibilità di farsi maggioranza in maniera istituzionalmente corretta.
Ma quando il partito di maggioranza esprime per oltre un decennio lo stesso leader – è il caso del Premier Benjamin Netanyahu – sembra che gli anticorpi elettorali non funzionino più. Ad ogni tornata, cambiando ogni volta coalizione, egli resta al vertice del governo.
Ispira sicurezza ai cittadini che della sicurezza coltivano il dogma. Israele è un piccolo paese circondato da potenze indifferenti se non ostili, necessita di una dottrina securitaria che assicuri una tranquillità altrimenti impossibile.
Il merito di Netanyahu, che ne spiega la longevità politica pari a quella del fondatore dello Stato David Ben Gurion, è di infondere la sicurezza senza cedere sui punti sostanziali dell’agenda negoziale per la pace. Tenne testa persino al Presidente Obama. Ora che alla Casa Bianca siede l’amico Trump, la sua determinazione trova la sponda americana.
Israele conosce altri anticorpi rispetto alla competizione elettorale. Le autorità di polizia e giudiziarie godono di autonomia, pur essendo nominate ai vertici dal Governo. La polizia propone l’incriminazione del Primo Ministro per una serie di reati, fra cui spicca l’immancabile corruzione legata ad una vicenda di doni e scontrini. Il Procuratore Generale valuta se dare corso alla richiesta.
Israele è il paese che condannò alla detenzione (ed alle previe dimissioni) un Capo di Stato ed un Primo Ministro, dunque la procedura ora avviata nei confronti di Netanyahu può produrre sorprese.
Il Primo Ministro non pare intenzionato al passo indietro che gli viene chiesto dalla piazza. Aspetta di capire se le indagini di polizia si tradurranno in incriminazione e se questa si trasformerà in processo. Resta al suo posto, forte del consenso popolare e delle simpatie americane.
La procedura è avviata, a dimostrare che anche in paesi di frontiera, purché di solida architettura istituzionale, la democrazia come la conosciamo in Europa è in grado di funzionare. Si tratta di un sistema di contrappesi, di balance of power, che garantisce che nessun potere, neppure quello governativo, sia così forte da sottomettere gli altri.
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