Un giallo senza fine che con il passare del tempo andrà dissolvendosi. Nove anni di reclusione. È questa la pena inflitta a Vincenza Dipino per l’omicidio di Patrizia Attruia il cui cadavere fu scoperto il 25 marzo del 2015 in una cassapanca nell’appartamento di via San Cosma. Stamani la sentenza della Corte di Assise di Appello (presidente Francesco Verdoliva, a latere e relatore il dottor Francesco Siano, procura generale dottoressa Antonella Giannelli) con la concessione delle attenuanti generiche (nel massimo) e la minima partecipazione al fatto con Lima. Esclusi la preterintenzione e i futili motivi. In buona sostanza, in appello, grazie soprattutto al lavoro instancabile dei legali Marcello Giani e Stefania Forlani, i giudici hanno riconosciuto la minima partecipazione al fatto. A uccidere Patrizia non fu lei. Trenta i giorni di tempo per il deposito della motivazione.
Ma alla fine è stata accolta la tesi supportata da questo giornale sin dal primo momento, cioè che da sola Enza Dipino non avrebbe potuto uccidere la sua “antagonista”. A condannare la povera Enza le sue stesse dichiarazioni rese la sera del 25 marzo quando si autoaccusò del delitto, per poi ritrattare, qualche settimana dopo, in un’interrogatorio effetuato in carcere, nel quale riconobbe di essere stata costretta dal Lima ad autoaccusarsi sotto minaccia. Altro che corpo ritrovato per caso dopo due giorni all’interno della cassapanca! Quel tempo fu necessario al Lima per esercitare terrorismo psicologico sulla povera Enza – tipica sindrome di Stoccolma – . Patrizia venne uccisa nella serata del 25 marzo al suo ritorno dal bar sotto casa. Aveva sorpreso il suo compagno, Peppe, a letto con Enza (i tre vivevano nella stessa abitazione da diversi mesi) e ne scaturì un momento di follia che portò a una violenta colluttazione e alla successiva morte della scafatese. Ma non per mano della Dipino. Non fu lei a sferrare il colpo mortale alla sua antagonista in amore. Per il Lima, che inizialmente fu soltanto accusato di occultamento di cadavere rimanendo in libertà per quasi due anni, il concorso in omicidio prima e ora l’accusa, pesantissima, di aver assassinato la sua donna.
Per lui il 27 marzo prossimo l’udienza di discussione nell’ambito del processo che si celebra con richiesta di rito abbreviato dinanzi al Giudice per l’udienza preliminare Maria Zambrano. Il Pubblico Ministero ne aveva richiesto trent’anni di reclusione. Con la sentenza odierna si chiude, per il momento, un capitolo importante del processo che rende giustizia, almeno in parte, alla povera Enza Dipino che ha avuto l’unica colpa di aver ospitato in casa propria, all’inizio dell’inverno 2014, quella coppia di amici che viveva di stenti in una baracca poco distante. Definita una “spietata e cinica calcolatrice” (si leggeva nelle carte processuali) quando in realtà è ed è stata soltanto un’ingenua, figlia adottiva vissuta per gran parte della sua vita con la sola madre tra i cani e la terra, in un’abitazione fatiscente. Una donna che a cinquant’anni non possedeva una significativa cultura e non conosceva ancora il mondo (non sapeva cowa fosse un cubetto di ghiaccio sic!).
Soddisfatti i legali Forlani e Giani (sostenuto dai figli Alessandro e Adriana e dalla dottoressa Luciana Caiola) al termine di un processo molto duro in cui la loro cliente era stata inizialmente accusata di omicidio volontario premeditato e, dopo aver somministrato alla vittima tranquillanti per ucciderla senza difficoltà. Impianti accusatori annientati nelle due fasi del giudizio. Dall’ergastolo a 23 anni, poi a 16 e ora a nove: queste le pene chieste per Enza. Tre anni li ha già scontati.
Fonte il Vescovado
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