Essere o non essere di Shakespeare, l’essere e il divenire della scuola eleatica. Il titolo evoca l’illusoria suggestione che Pino stia ancora tra noi, lo si vede mentre canta sul grande schermo che domina il palco, pare che ci puoi interagire, sotto allo schermo suonano, canuti e imbolsiti, i sodali di sempre: Tullio De Piscopo, Tony Esposito, James Senese.
Irrompe sul palco Alessandro Siani, che si pone nella scia di Massimo Troisi come voce comica napoletana, per annunciare che la musica di Pino non si sente, si tocca. Il consenso è massimo.
Il pubblico dello Stadio San Paolo, come già Piazza Plebiscito ai tempi di Pino, canta le strofe al posto dei cantanti. Anche i più giovani, quelli che Pino l’hanno ascoltato dai genitori per la prima volta, recitano i versi a memoria. Pino è il catechismo di intere generazioni campane e non. Questo emoziona anche chi non appartiene al nostro mondo o non ne afferra appieno il linguaggio.
Pareva dunque una grande festa per Pino Daniele e nel suo nome. E d’altronde questa affermazione non è blasfema, i musicisti pop hanno il tocco del divino, John Lennon arrivò a dichiarare i Beatles più popolari di Gesù Cristo. La laica e sacra commemorazione di Pino si esaurisce nelle prime battute.
I sodali storici scompaiono, si affaccia di tanto in tanto James Senese ad accompagnare col sax gli artisti di turno, alcuni sembrano portati là sull’onda della loro personale notorietà anziché della loro adesione all’universo di Pino e della canzone napoletana.
Si odono note stonate, autocelebrazioni di canzoni celebri per la voce di Antonello Venditti, Claudio Baglioni, Francesco De Gregori, quest’ultimo tenta persino un bizzarro duetto con Enzo Avitabile. Per non parlare di Jovanotti che mette in frenesia podistica i testi, invece intimi e riflessivi, di Pino.
Qualcuno lo scimmiotta in Quanno chiove, un pezzo che Pino narrò avere composto in tutta fretta per riempire un disco e provato nella camera d’albergo con James Senese. La fretta, al contrario di quanto comunemente si pensa, è buona consigliera nel caso dei compositori. Versi del tipo “e ti sento quando scinne ‘e scale, e corza senza guarda” e “t’astipe pe nun murì” ti escono di getto o ti vengono così costruiti da suonare fasulli.
Ciascun artista paga il debito alla città ospitante gridando “Napoli”. Ti chiedi se Napoli abbia bisogno di tante esclamazioni di affetto, costruite grazie alla scaletta televisiva che impone di accattivarsi il pubblico.
Il pubblico continua a sperare che la trasmissione abbia la carica sciamanica di far uscire Pino dallo schermo e portarlo sul palco, di nuovo accanto al gruppo storico: Senese al sax, De Piscopo alla batteria, Esposito alle percussioni. Nel film di Woody Allen l’uscita dell’attore dallo schermo e la materializzazione in sala è un fenomeno possibile.
Nel film di Stanley Kubrick l’astronauta ripercorre tutta la vita fino alla morte ed alla rinascita in forma di feto. La magia non riesce al programma Rai. La buona intenzione di celebrare Napoli all’apice della produzione artistica lascia all’amarezza di una confezione volta a promuovere le tournée estive dei cantanti.
Pino non è. L’operazione mediatica non riesce a resuscitarlo, semmai accresce il rimpianto: della sua sobrietà da napoletano intelligente. Restano i dischi. Ascoltiamoli ad occhi chiusi sognando che ci portino a prima di quel fatale gennaio 2015.
Cosimo Risi