Il caso del 69enne sardo nasce nel 2013 tra i commenti di un articolo del Sole 24 Ore sulla green economy, poi ricondiviso su Facebook dalla testata e da molti altri utenti. All’interno dell’articolo si citava proprio il caso dell’azienda sarda di Alghero, tanto da spingere l’allora sindaco Stefano Lubrano a pubblicare la notizia sul suo profilo in un post poi diventato virale. Il reato, secondo la Cassazione, si è consumato proprio nelle risposte al post del sindaco: un utente dal nome fittizio di “Sergio Volpe” ha lanciato diversi commenti pesanti contro l’azienda e i suoi prodotti, tanto da spingere i vertici della realtà algherese a denunciare l’uomo che, dopo le indagini della polizia postale, si è scoperto essere il 69enne Salvatore Unzamu.
I precedenti: “Su Facebook gli insulti sono più gravi”
Non è la prima volta che la Cassazione ribadisce che gli insulti su Facebook sono equiparabili a dei reati. Lo scorso anno la sentenza 2723/2017 aveva sancito che “la divulgazione di un messaggio tramite Facebook, ha, per la natura di questo mezzo, potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, che, del resto, si avvalgono del social network proprio allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato; pertanto se il contenuto della comunicazione in siffatto modo trasmessa è di carattere denigratorio, la stessa è idonea ad integrare il delitto di diffamazione”.
Un anno prima, nel 2016, la Cassazione aveva inoltre sottolineato che proprio per questa potenziale diffusione le offese su Facebook sono ancora più gravi e quindi “integrano un’ipotesi di diffamazione aggravata”.