Al suo contributo (Affarinternazionali) rinvio per gli approfondimenti. Resta scoperto il profilo europeo, e cioè le politiche cui sono chiamati l’Unione europea ed i singoli stati membri.
Il fenomeno migratorio tocca una sensibilità profonda d’Europa: la ricerca dell’identità perduta. Un’identità perduta a cospetto dei sani propositi che abbondano nel Trattato sull’Unione europea.
L’azione esterna dell’Unione (dalla politica estera alla politica commerciale) si ispira agli stessi principi che informano la politica domestica. L’Europa è coerente con se stessa dentro e fuori. Libertà fondamentali, diritti umani, sviluppo sostenibile, democrazia, principio di legalità, cooperazione. L’uso della forza militare è contemplato in maniera residuale: a scopo di difesa e per le missioni di pace.
Le dichiarazioni di principi sono messe in discussione dai flussi migratori. Sul punto l’Unione sconta la sottovalutazione politica ed il vuoto giuridico. Agli inizi il fenomeno appariva controllabile coi mezzi di bordo e col richiamo al profilo umanitario dell’Unione e dei suoi popoli.
Quando i numeri divennero importanti fino al picco del 2015, la reazione fu invece sovradimensionata. Frutto della propaganda di ambienti politici interessati alla “paura” e frutto della percezione popolare di essere, i cittadini europei, in balia di fenomeni incontrollati.
In carenza infatti di una reazione europea adeguata, la paura ha finito per dominare il pubblico dibattito. E’ presumibile che i movimenti cosiddetti sovranisti raggiungano la maggioranza in seno al prossimo Parlamento europeo fino a scardinare il tradizionale duopolio popolare – socialista.
Ecco che il dibattito pubblico si sposta dagli aspetti umanitari a quelli politici in vista delle elezioni 2019, che non rinnoveranno soltanto il Parlamento ma influenzeranno a cascata l’assetto della nuova Commissione. Anche il sovranismo gioca la carta del potere europeo nella chiave del potere nazionale.
L’argomento forte del sovranismo è che le frontiere esterne dell’Unione sono presidiate principalmente dagli stati membri costieri (Grecia, Malta, Italia, Francia, Spagna). La loro protezione pesa in prima battuta sullo stato interessato e, in solido, sull’Unione nel suo insieme. Quanto accade a Lampedusa riguarda pure i paesi baltici che dall’isola sono lontanissimi. Di qui l’appello alla solidarietà comunitaria o, in caso di silenzio, il grido “L’Europa ci ha lasciati soli”.
Al grido segue l’ingiunzione ad adoperarsi da soli: stringendo intese bilaterali coi paesi di provenienza e transito dei flussi (Libia e Turchia, per citare i più significativi); dirottando i flussi verso altre destinazioni europee (il caso Aquarius); gestendo le aperture dei porti nazionali a misura della bandiera della nave (le ONG straniere respinte, le navi militari nazionali accolte giocoforza).
La carenza di una strategia europea condivisa resta il nodo di fondo. Si susseguono i vertici europei in cerca della pietra filosofale. Si moltiplicano, insieme, i richiami alla vena umanitaria dell’Europa ed all’esigenza di tutelare, costi quel che costi, le frontiere e le identità nazionali che si temono minacciate.
Un quadro disordinato dove qualsiasi iniziativa, anche la più scomposta, avrebbe diritto di cittadinanza. Occorrerebbe una regia europea forte che non si intravede. Difficile aspettarla da una Commissione a fine mandato, difficile aspettarla da un Consiglio europeo prigioniero della regola del consenso. E si sa in anticipo che alcuni stati membri non consentono a progressi sulla via di una politica comune.
Nell’immediato le risposte nazionali sono quasi le sole ascoltate dal grande pubblico. Eppure una risposta comune sarebbe possibile. Una rete di alleanze (partenariati) coi paesi di origine e transito, una programmazione dei flussi in relazione alla decrescita demografica europea, un mix di fermezza e solidarietà nell’accoglienza, una efficace politica dei rimpatri. Soprattutto una vigile attenzione ai fatti del mondo: laddove possono scoppiare le crisi che generano i flussi.
Fra la percezione popolare del fenomeno ed il lavorio diplomatico si apre un varco che andrebbe colmato con una corretta informazione. Si prenda il caso dell’ONU. Alle Nazioni Unite procedono le discussioni sui global compacts, gli accordi globali concernenti i rifugiati e le migrazioni.
Il percorso ONU mira a divenire il punto di convergenza tra gli stati membri sui principi e sugli obiettivi delle politiche migratorie. Lo scopo è di creare un quadro normativo e politico tale da facilitare la cooperazione multilaterale in materia. Poiché a New York sono rappresentati sia i paesi di emigrazione che di immigrazione, le conclusioni dovrebbero impegnare la comunità internazionale nella sua interezza.
Il dibattito include considerazioni umanitarie, in particolare se riferite alle migrazioni provocate da situazioni di guerra e dal mancato sviluppo. Al mancato sviluppo afferiscono le migrazioni cosiddette climatiche e la tutela dei diritti umani. La cooperazione multilaterale è decisiva in questo campo perché entrano in gioco le dimensioni geografiche del fenomeno: regionale, internazionale, bilaterale.
La cooperazione multilaterale serve pure a comprendere quali siano gli stimolatori (drivers) delle migrazioni: la mancanza di opportunità di lavoro, le difficoltà del vivere in certi paesi, gli squilibri economici, le crisi agricole e ambientali, il mancato rispetto dei diritti umani fondamentali.
Per tornare all’Unione europea, essa impronta l’azione esterna al favore del multilateralismo e dello sviluppo sostenibile. Le tre istituzioni politiche (Commissione, Consiglio, Parlamento) adottano nel 2017 la Dichiarazione dal titolo “Nuovo consenso europeo in materia di sviluppo – il nostro mondo, la nostra dignità, il nostro futuro”. La Dichiarazione sostiene che il tema migratorio va affrontato alla fonte: nei paesi di provenienza dei flussi attraverso la politica di sviluppo per rimuovere i ritardi economici.
La migrazione economica va perciò combattuta attraverso la cooperazione allo sviluppo (da cui i piani per l’Africa) ed i partenariati rafforzati (accordi coi paesi di provenienza per accrescere la loro volontà di frenare i flussi). E’ il tipico approccio democratico alle relazioni internazionali, che l’Unione persegue pur scontando il difficile rapporto con regimi assai poco democratici. Ecco perché l’Unione cerca di ampliare il campo degli interlocutori locali: non solo i governi ma anche le società civili ed il settore privato.
In linea di principio, l’Unione colloca il fenomeno migratorio nella prospettiva della cooperazione allo sviluppo. Nel 2018 il Parlamento europeo constata in una risoluzione quanto segue: “la migrazione è un fenomeno umano complesso; sebbene i rifugiati siano definiti in modo specifico e tutelati dal diritto internazionale, in quanto individui che risiedono al di fuori del loro paese di origine a causa del timore di persecuzioni, conflitti, violenze… i rifugiati, al pari dei migranti, sono titolari di diritti umani e spesso sono soggetti a una maggiore vulnerabilità, violenze e abusi durante l’intero processo migratorio”.
La considerazione da trarre è che, in ambito multilaterale (ONU, UE), l’approccio alle migrazioni è marcatamente umanitario (human rights oriented) e considera in priorità gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. I profili di sicurezza sono sostanzialmente lasciati alle valutazioni degli stati membri.
Cosimo Risi