Un lavoro che fiorisce come i “suoi” ciliegi, in cui è l’anima a parlare, pur non avendo voce. Da “Occhi che mi vogliono vedere”, a una rincorsa, l’estenuante attesa di una chiave, un pezzo di puzzle mancante al capolavoro di felicità che, a intermittenza, appare e scompare. Parole ruvide e graffianti che gridano forte, ammoniscono, dissentono, implorano.
Il monologo di un’anima innamorata di un passato che a tratti rivive in un abbraccio, un bacio, uno sguardo, pienezza, calore e poi scompare in una metallica mancanza. Testi forti come ulivi secolari, parole che profumano di tramonti e di mediterraneo. Per un attimo si ha l’impressione che l’inquietudine sia scomparsa mentre, in realtà, la poetessa ha solo spostato l’attenzione forse per non guardarla negli occhi.
L’elemento “mare”, tanto caro all’autrice, è il simbolo di acqua, grembo che accoglie, che culla. Il mare riporta all’infanzia, ai momenti spensierati. L’onda ritorna riportando ricordi e affetti, coloro che mancano.
Nei testi più lunghi, l’attesa fa da padrona. I componimenti più brevi, invece, sembrano ritratti: un viso, due mani che dispensavano amore, una bocca che dissetava. Il lettore percepisce la presenza di una scala immaginaria in cui qualcuno è salito troppo in fretta, ignaro che alle sue spalle, qualcun altro rimane indietro.
Esistiamo. Ma per qualcuno siamo forse invisibili? Insistere ha senso? E aspettare? Correre, rincorrere o farsi rincorrere? A ciascuno le proprie domande.