Tranne che per scarni accenni, stampa scritta e video-parlata hanno dato solo fugace notizia che nei cieli di Siria, dove notoriamente sarebbe meglio non volare, un aereo militare russo, a bordo 15 passeggeri, è abbattuto mentre rientra alla base russa di Khmeimim. Abbattuto non da un paese ostile come capitò tempo addietro ad altro aereo russo ad opera di un caccia turco.
No, colpito dalla contraerea siriana fornita dagli stessi russi e con artiglieri verosimilmente addestrati dai colleghi russi. Fuoco amico che sbaglia bersaglio perché seguiva le tracce di aerei israeliani che stavano bombardando, o avevano appena bombardato, postazioni iraniane in Siria.
Il Ministero della Difesa di Mosca ipotizza che l’IAF (Israeli Air Force) abbia deliberatamente sfruttato la scia dell’aereo russo per occultare la propria presenza ed evitare i colpi della contraerea. Lo stesso Ministero minaccia ritorsioni a carico di Israele.
Nulla di tutto ciò. Il Presidente Putin telefona al Primo Ministro Netanyahu per dirsi consapevole che si è trattato di un incidente, che forse la dinamica non è proprio quella ipotizzata, che l’IAF comunichi con congruo anticipo ai russi le rotte delle proprie missioni ad evitare incidenti simili. La cronaca militare ci porta ad una valutazione politica. La Russia è arbitro della situazione in Siria.
Vigila sui cieli al punto di coordinarsi con l’alleato più stretto degli Stati Uniti. Controlla i movimenti sul terreno acconsentendo alla richiesta turca di non fare massacrare la residua cittadinanza di Idlib. Convoca periodiche riunioni a tre con Iran e Turchia.
La presenza di Mosca nel Mediterraneo non è più episodica, è strutturale. Bisogna che le altre potenze mediterranee e l’Unione nel suo insieme se ne avvedano per le valutazioni del caso. In Italia l’affare risulta non mediatico e perciò inesistente nel pubblico dibattito.
In Libia si muove una congerie di milizie. Tutte dai nomi per noi impronunciabili, tutte armate alla bell’e meglio con i pick –up dalla vistosa scritta Toyota e armate di mitragliatrici e cannoncini. Tutte ardenti del desiderio di conquistare un posto al sole, che in Libia abbonda quanto il petrolio. Attorno al prezioso idrocarburo la battaglia è continua, le alleanze sono mutevoli.
Il governo Serraj, che ha il pregio del riconoscimento ONU, pare sempre più in affanno. Vero è che si colloca a Tripoli, in quella che era e forse è ancora la capitale dello stato. Vero è pure che ha modesto peso militare in una guerriglia perpetua in cui le armi urlano più forte della diplomazia.
Da Bengasi si contrappone il Generale Haftar (alcuni lo qualificano di Maresciallo). Già ufficiale di Qaddafi, il militare ha con l’Italia un atteggiamento altalenante. Una volta ci blandisce, un’ altra ci minaccia. Ora rispolvera il passato coloniale, ponendosi così in linea di continuità col defunto Colonnello, per chiedere i teschi dei resistenti libici all’epoca del Generale Graziani.
In Libia la diplomazia italiana si sta muovendo con disinvoltura. Prendere dentro gli americani, finora occupati da altre priorità; cercare un modus vivendi con la Francia, che dal 2011 gioca una propria partita non sempre a noi favorevole; allacciare una cintura di sicurezza con l’Egitto e, inevitabilmente, con la Russia. I nostri interessi in Libia sono vitali, il muoversi ad ampio raggio è doveroso oltre che opportuno.
Neppure di Libia si occupa il nostro dibattito pubblico. Gli scossoni nel Mediterraneo influenzano la nostra ricchezza e la nostra tranquillità quanto e più dei decimali di deficit che dichiariamo di ignorare perché materia da ragionieri. Agiscono sugli scenari strategici di medio periodo.
Cosimo Risi
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