Sherlock Holmes e John Watson hanno casa a Baker Street. Tutti ad indagare su Brexit e, ora, sulla marcia anti – Brexit. Si calcolano 500.000 manifestanti per il centro di Londra a chiedere il referendum bis rispetto a quello del 2016.
A pochi mesi dalla chiusura dei negoziati (marzo 2019) il Governo britannico non ha un quadro chiaro. Si tratta di un Governo debole, al suo interno si agita la corrente pura e dura che fa capo all’ex Ministro degli Esteri Boris Johnson, cui si contrappone quella dei possibilisti.
La Premier May si muove fra i due poli senza avere la forza e neppure il carisma – lei che pretendeva di essere la novella Thatcher – per affermare una linea univoca, fosse anche a colpi di decisioni autoritarie. Coltivava l’illusione che l’Unione, frastornata dai nuovi sovranisti, cedesse alle ragioni dei sovranisti di annata: i britannici appunto. Così non è finora.
Il negoziatore europeo Michel Barnier è esponente della vecchia guardia europeista, trova sponda a Berlino e Parigi e nella moltitudine di funzionari europei, compresi quelli di nazionalità britannica, che intendono limitare i danni del recesso.
Non solo per una vendetta postuma nei confronti della delegazione britannica – chiunque abbia lavorato a Bruxelles conserva l’amaro ricordo delle dispute cogli “inglesi” – ma per una vocazione didascalica.
Uscire dall’Unione costa più che accettare i compromessi che giustificano la permanenza. In definitiva il dilemma non è fra remain e exit: il dilemma è fra la logica dell’avere le mani libere e quella del contemperare le proprie esigenze cogli altri.
Alla lunga, nel mondo delle minacce globali, lo stare assieme è la ragione d’essere dell’Europa. Nessuno stato da solo ce la può fare, sarebbe schiacciato dall’azione degli attori globali che imporrebbero le loro regole con le buone se non con le cattive maniere.
La campana di Londra suona anche per noi. Si moltiplicavano durante la stesura del contratto di governo le pulsioni a uscire: se non dall’Unione quanto meno dalla moneta unica. Si oscurava il fatto che l’uscita dall’euro sarebbe stata la premessa dello smembramento dell’Unione.
Un’Europa tornata allo stato primigenio sarebbe dilaniata dalla concorrenza interna senza freni, l’unica regola a vigere sarebbe quella del più forte. E l’Italia sarà anche il più bel paese al mondo ma non è certo il più forte. Una guerra delle valute, una guerra dei dazi ci precipiterebbe nello strapiombo.
Ben vengano perciò le affermazioni di prudenza dei governanti. Che suonano però singolari a chi abbia l’orecchio abituato al Brussels sound, il suono di Bruxelles. Dire che riconosciamo le istituzioni europee avrà anche l’effetto mediatico di rassicurare, ma è un nonsense dal punto di vista giuridico e politico. Noi siamo le istituzioni europee.
Gli stati membri siedono nel Consiglio europeo. Gli stati membri siedono nel Consiglio dei Ministri, quello Affari Esteri è presieduto in permanenza da una esponente italiana. Personalità degli stati membri compongono la Commissione. Personalità degli stati membri compongono la Corte di Giustizia e la Corte dei Conti. L’ex Governatore della Banca d’Italia presiede la Banca Centrale Europea. Un politico italiano presiede il Parlamento Europeo.
La compenetrazione fra momento nazionale e momento europeo è generale. Compenetrazione e non contrapposizione. Affermare perciò che rispettiamo le istituzioni europee è una ovvietà avente il solo merito di non fare dimenticare le convulsioni di Brexit. Per dirla all’inglese: a lesson learned, un insegnamento appreso.
Cosimo Risi
io non vedo questa azione comune degli Stati per fronteggiare il potere globale.
piuttosto sono gli Stati che si fronteggiano fra loro mentre il potere globale si impone ad un livello superiore e continua a farsi i c@zzi suoi….