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La pericolosa china del Lavoro che non c’è (di Tony Ardito)

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In base all’ultimo Rapporto del Censis, la perdita di peso del lavoro come fonte di produzione di ricchezza è un processo ormai di lungo periodo che ha investito le economie avanzate e che riflette, da un lato, l’impatto crescente delle tecnologie sulla produttività del lavoro e, dall’altro, una ripresa della quota del prodotto interno lordo a favore del capitale.

Tra il 1975 e il 2015, in Italia la componente lavoro sul prodotto è scesa dal 61,5% al 54%, con una differenza di 7,5 punti percentuali. Tra il 2000 e il 2017, nel nostro Paese il salario medio annuo è aumentato in termini reali dell’1,4%. La differenza è pari a poco più di 400 euro annui, 32 euro in più se considerati su 13 mensilità. Nello stesso periodo, in Germania l’incremento è stato del 13,6%, quasi 5.000 euro annui in più, mentre in Francia il valore a fine periodo è maggiore di oltre 6.000 euro, cioè 20,4 punti percentuali in più. Se a inizio secolo il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, a distanza di 17 anni la forbice si è allargata di ben 9 punti, passando al 74%.

Tra il 2007 e il 2017, la componente degli occupati con età compresa tra 25 e 34 anni si è ridotta del 27,3%, pari a più di un milione e mezzo di giovani. All’interno di tale componente, la parte più pregiata, costituita dai laureati, aumenta solo del 10,1%, compensando in parte la perdita di capitale umano più in linea con i processi innovativi che il mercato richiede. Nello contempo, la classe di età 55-64 anni cresce del 72,8% e vede aumentare al proprio interno la parte di occupati con titolo di studio più elevato (+91,2%).

Il risultato finale non sembra però confortante: in dieci anni si è passati da 236 giovani occupati ogni 100 anziani a una sostanziale parità; mentre nel segmento più istruito, i 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani laureati del 2007 sono diventati appena 143.

A rendere ancora più critica la situazione è la presenza di giovani in condizione di sottoccupazione, che nel 2017 ha caratterizzato il lavoro di 237.000 persone con età compresa tra 15 e 34 anni: un valore che è raddoppiato nell’arco di soli sei anni, così come è aumentato sensibilmente il numero di ragazzi costretti a lavorare part time pur non avendolo scelto: 650.000 nel 2017, 150.000 in più rispetto al 2011.

Questo non facile districarsi tra numeri e percentuali conduce, da ogni prospettiva, alla medesima, dolorosa conclusione, ovvero che quella occupazionale si sta, sempre più, trasformando da priorità a emergenza sociale, con pesanti riverberi non solo sul fronte economico per l’intero Paese, le imprese e ciascuna famiglia, ma anche per il deleterio effetto che tutto ciò produce persino nelle relazioni tra persone, insinuando tra esse di egoismo e indifferenza; creando nuove distanze e svilendo la ricchezza del confronto e della diversità.

Tony Ardito

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