I funzionari del corpo diplomatico parlano l’inglese delle loro alte scuole e non l’International English di ascendenza indiana. Sono avvezzi a guidare i popoli dalla tradizione imperiale, che conservano non più come prassi, desueta con la decolonizzazione, ma come attitudine.
Hanno a volte difficoltà a lasciarsi intendere dagli anglofoni di oltreoceano. Gli americani consumarono la loro rivoluzione in opposizione al dominio britannico ed ora che straripano di potenza militare e culturale non si adattano più al ruolo dei cugini lontani. Basti pensare al mediocre tentativo di Tony Blair, l’ultimo statista britannico, di condizionare George W. Bush nella guerra all’Iraq.
Il luogo comune della sagacia britannica si infrange sulle scogliere non di Dover ma di Brexit. Theresa May vorrebbe essere l’epigono dei grandi Premier conservatori. Decisamente altra stoffa. Mai Churchill né Thatcher sarebbero andati sotto varie volte ai Comuni sulla base dello stesso provvedimento. La Signora May prova e riprova a portare in approvazione il piano di recesso dall’Unione europea. Puntualmente la proposta è bocciata a iniziativa di membri del suo stesso partito hard brexiters. Per loro il no deal è migliore di qualsiasi deal con la vituperata Bruxelles.
Anelano di restituire al Regno, con la sovranità ritrovata, anche la fiera insularità. Contano sui rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, non considerano che sono alquanto dubbi con il Presidente Trump, il quale non smuove la Nord Corea ma critica la capacità negoziale dei londinesi.
Contano di ripristinare i legami con la grande comunità anglofona, dimentichi che l’India viaggia verso il miliardo e mezzo di abitanti ed ha le priorità di tenere commercialmente testa alla Cina e controbattere sul terreno l’eterno rivale Pakistan. Persino la Nuova Zelanda, isola remota e felice, scopre le sciagure del primato bianco e dell’islamofobia.
La strategia negoziale britannica mostra la corda sin dal referendum del 2016. Un referendum consultivo che il Governo trasformò in cogente. Un referendum vinto di misura grazie ad una congerie di fake news, la principale fu che con l’uscita il Regno avrebbe vissuto una nuova età dell’oro.
La London School of Economics ha condotto uno studio su cosa accadrà alle regioni britanniche in caso di hard Brexit. Tutte ne riceveranno nocumento. Soltanto alcune, le più sviluppate come Londra, potranno recuperare nell’arco di alcuni anni. Le regioni meno sviluppate perderanno in maniera durevole l’attuale benessere senza alcuna possibilità di riscatto. Si arriverà alla divaricazione permanente fra ricchi e poveri. La Scozia è avvisata, perciò medita di ritirarsi dalla partita.
A volere trasferire il modello economico al caso italiano, un’ipotetica Italexit aggraverebbe il divario Nord – Sud, fino a spingere verso la secessione le aspirazioni autonomiste di Lombardia e Veneto. Le due regioni aggancerebbero a termine il carro centro-europeo, mentre quelle del Mezzogiorno starebbero a guardare al Mediterraneo meridionale, generoso di sole e poco altro. Per non parlare della possibile riapertura delle vertenze con Austria, Slovenia e Croazia riguardo alle zone limitrofe.
Non si sa se i nostri sovranisti conoscano il rapporto della London School. V’è da dubitare: è troppo complesso da trasferire nella ristrettezza dei social. Eppure andrebbe valutato oltre la cerchia degli esperti. A leggerlo si ha conferma che l’Europa non è solo il nostro destino, è una pratica di realismo.
Cosimo Risi