Caterina Socci, 24 anni, morì il 12 settembre 2009. Il 24 si sarebbe dovuta laureare in architettura. Quella sera, intorno alle 20, lei e le altre universitarie, con le quali condivideva un appartamento a Firenze, stavano decidendo se cucinarsi gli spaghetti o recarsi in pizzeria. Ebbe appena il tempo di dire: «Oddio, mi sento male». Le amiche la afferrarono al volo, impedendo che sbattesse la testa sul pavimento. Il cuore s’era fermato, il respiro pure. Suo padre, il giornalista e scrittore Antonio Socci, fu avvertito soltanto alle 21.30.
Ancora gli vibrano nella testa lo squillo del telefono, il tramestio che d’improvviso scrollò la casa, l’urlo straziato della moglie Alessandra, subito seguito dal suo: «Gesùmionooooooooo!». E poi la folle corsa in auto da Siena a Firenze.
«Aritmia fatale», fu la diagnosi. Nessuna malformazione congenita. Escluse cause virali o tossicologiche. Era semplicemente cessato, senza motivo, l’impulso elettrico che fa contrarre il muscolo della vita. Per tentare di ripristinarlo, i soccorritori del 118 usarono il defibrillatore più e più volte, con ostinazione.
Dal momento dell’arresto cardiaco, le probabilità che questa manovra di rianimazione sortisca qualche effetto decadono del 7-10 per cento ogni 60 secondi. Dieci minuti, un quarto d’ora al massimo, e sei spacciato. E se per caso negli istanti successivi riescono a riacciuffarti, i danni al cervello provocati dalla mancata ossigenazione delle cellule nervose sono già irreversibili. È il coma profondo o lo stato vegetativo permanente.
Caterina era morta da un’ora e mezzo quando giunse sul posto don Andrea Bellandi, assistente spirituale degli studenti di Comunione e liberazione. S’inginocchiò sul pavimento e cominciò a recitare il rosario. L’équipe medica gli fece capire che era fiato sprecato, che non c’era più nulla da fare. Ma alla seconda, o terza, Ave Maria, «il miracolo», è così che lo chiama papà Socci: «Il cuore riprese a pulsare di colpo. Un battito forte, regolare, non deboli segnali come avviene subito dopo una defibrillazione. Tornata di botto normalissima anche la pressione arteriosa. Due eventi scientificamente inspiegabili. Perché mia figlia era morta, capisce? Morta».
Antonio Socci non ha paura di scomodare una parola impegnativa: resurrezione. Finora aveva sempre fermamente creduto che questo evento soprannaturale si fosse manifestato solo nei tre redivivi di cui narra il Vangelo, riportati in vita da Gesù: la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Nain e Lazzaro.
Ma oggi che Caterina ha 29 anni, si regge sulle proprie gambe, ragiona, ascolta, capisce, si commuove, ride, chiama per nome i genitori e s’impegna giorno dopo giorno in un lento ma strabiliante ritorno alla normalità, che cosa poteva concludere un padre se non che la sua primogenita è tornata dall’aldilà? E proprio da questa figlia «resuscitata» prende le mosse Tornati dall’Aldilà (Rizzoli), il saggio che Socci, dal 2004 direttore della Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia, ha mandato in libreria quattro giorni fa e che si leggerebbe come un romanzo se non si sapesse in partenza che quanto vi è descritto è tutto vero, tutto documentato, a cominciare dalle molteplici testimonianze di quelle che la scienza classifica come Nde (near-death experience), esperienze vicine alla morte.
«Quando la sorte mi ha costretto a occuparmene, sono rimasto sbalordito dai numeri: si calcola che circa il 5 per cento della popolazione mondiale abbia avuto una Nde. Quindi 3 milioni di persone soltanto in Italia. Il sondaggio l’ha svolto la Gallup, il più antico e autorevole istituto di statistica statunitense. Io stesso, nella ristretta cerchia d’una ventina di amici, ho scoperto cinque casi, tre dei quali sono riportati nel libro».