Grazie ai patti, che nella vita europea si traducono in asse, Parigi e Berlino (prima Bonn) si sono riconciliate dopo due guerre mondiali e sono il motore dell’integrazione.
Il Patto sembra vacillare. I protagonisti escono dal colloquio a margine del Consiglio europeo di Bruxelles senza un accordo sui futuri assetti dell’Unione, e segnatamente dei tre incarichi chiave in scadenza: presidenza della Commissione, presidenza del Consiglio europeo, presidenza della BCE.
Segue la presidenza del Parlamento europeo che, in linea di principio, non compete alla “camera degli stati” (come il Presidente Tusk definisce il Consiglio europeo) ma al Parlamento stesso.
Il precedente del 2014 del candidato di riferimento per la Commissione non piace più a tutti. Macron, e non solo lui, avanza critiche al metodo che affida sostanzialmente agli elettori l’indicazione del successore di Juncker. Poiché l’elettorato europeo premia a maggioranza il Partito Popolare, spetterebbe sempre e solo a questo la guida della Commissione.
Nell’attuale situazione sarebbe il tedesco Manfred Weber, europarlamentare uscente e, pare, accettato giocoforza da Angela Merkel per accontentare gli alleati interni della democrazia cristiana bavarese.
A sfavore di Weber, oltre alla matrice politica decisamente conservatrice, milita l’inesperienza governativa non avendo mai coperto incarichi di rilievo nel suo paese. Juncker è stato a lungo Primo Ministro e Ministro delle Finanze del Lussemburgo nonché Presidente dell’Eurogruppo. Al collaudato routinier del Berlaymont succederebbe un neofita di quei corridoi assai insidiosi per chi non li frequenta da sempre.
Macron rileva che la maggioranza al Parlamento non è più quella tradizionale fra socialisti e popolari. L’irruzione dei liberali, di cui il suo En marche! è parte rilevante, modifica il panorama, al pari dell’arrivo in forze dei Verdi grazie alla vittoria in Germania, dove si sono classificati secondi scalzando i socialdemocratici.
Un’alleanza all’insegna dell’europeismo fra Popolari, Socialisti democratici, Liberali, Verdi si profila nell’Assemblea e si conferma nel Consiglio europeo, in seno al quale con l’uscente May solo pochi capi di governo si richiamano al sovranismo. Lo schieramento annullerebbe il relativo successo dei partiti sovranisti, che sarebbero così condannati in posizione minoritaria rispetto alle scelte strategiche.
Si scrive molto della presunta emarginazione italiana dal grande gioco. Non possiamo ambire a mantenere le attuali posizioni, e cioè le presidenze del Parlamento e della Banca nonché la direzione degli affari esteri. E questo non per la modestia degli eventuali candidati ma per l’ineluttabile rotazione fra gli stati membri.
Inquieta che il governo di Roma, nella sua doppia anima, non ha sponde consone a Bruxelles. Il M5S non fa parte di alcun gruppo significativo, la Lega è respinta dal PPE a trazione tedesca che continua ad escludere intese coi sovranisti di qualsiasi colore.
Nel 2019 corrono i trenta anni dalla caduta del Muro, la Germania unificata è assai cresciuta rispetto a quell’epoca, continua ad essere poco decifrabile circa la voglia di leadership continentale. L’incognita Merkel pesa sul war game brussellese. Accettasse di presiedere il Consiglio europeo, il resto seguirebbe a cascata.
Alla Commissione si aprirebbe lo spazio per la liberale danese Margrethe Vestager o per il popolare francese Michel Barnier. Significativo è l’auspicio di Tusk: al vertice delle istituzioni salga finalmente una donna.
Cosimo Risi