L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di intervenire inserendola, a partire da gennaio 2022, nella sua Classificazione Internazionale delle Malattie – nella sezione dedicata ai “disturbi associati all’occupazione o alla disoccupazione”.
Intanto, l’OMS ha già diffuso le direttive ai medici per diagnosticare la sindrome con precisione onde evitare di confonderla con altre patologie dai sintomi simili, spiegando anche che non può essere autodiagnosticata e che non va confusa con la sola semplice stanchezza da lavoro.
Fino a poco tempo fa era un termine tecnico quasi del tutto ignoto, ma da quando la notizia ha avuto diffusione, ovvero da pochi giorni, non facciamo che leggerlo o sentirlo nominare: il burnout sembra essere entrato con prepotenza nel nostro quotidiano per collocarsi fra i mostri del nostro tempo, quali lo stress generico, l’ansia, la depressione e il disturbo dell’adattamento.
Fu lo psicologo statunitense, Herbert Freudenberger, uno dei primi a descrivere i sintomi di esaurimento professionale ed a condurre un ampio studio sullo stesso. Nel 1974 pubblicò un primo articolo su una rivista scientifica e nel 1980 un libro, che poi diventò un punto di riferimento per tutti coloro che si sono interessati al burnout, il quale sino ad oggi era rimasto, comunque, solo un qualcosa di ufficioso, di non chiaramente riconosciuto dal mondo medico, ma che pian piano ha preso sempre più il sopravvento.
La Francia è un esempio di come tale sindrome sia un fenomeno di impressionante portata: dei quasi 30 milioni di dipendenti francesi, oltre tre milioni sono a rischio “esaurimento professionale” e, secondo una indagine condotta nel 2017, il 36% dei francesi ne ha già sperimentato uno.
Anche negli Stati Uniti i numeri sono importanti: un impiegato su quattro sente di avere a che fare con il distrurbo sempre o molto spesso, mentre un 44% lo percepisce a volte. Invece, per quanto riguarda casa nostra, benché, si siano registrate presenza e diffusione della patologia, risulta ancora difficile individuare elementi statistici.
Sembra un paradosso: la sindrome di burnout in qualche modo, accomuna chi vive il proprio impegno in una condizione di malessere e coloro per i quali il malessere è la condizione. È l’amara riprova che il lavoro, ahimè, non sempre nobilita l’uomo, come invece dovrebbe.
A maggior ragione, allora, proviamo a immaginare, anzi, ad indugiare qualche istante in più su come possono sentirsi e cosa provino coloro che un lavoro non ce l’hanno nemmeno.
Tony Ardito