Sono meno attenti a cogliere i messaggi che Washington recapita a Londra. Non angosciatevi per il recesso dall’Unione, avrete un accordo gigantesco con gli USA che vi farà recuperare lo svantaggio, l’Unione è una causa persa (direbbe così, a conoscere il napoletano), altri stati membri farebbero bene a seguirvi.
Trump ha poi corretto il tiro alla commemorazione dei 75 anni dallo sbarco in Normandia: abbraccia Emmanuel Macron e ribadisce l’intangibilità del legame transatlantico. E’ il Presidente francese, assieme all’assente Angela Merkel che alla cerimonia del D – Day certo non può andare, il destinatario delle contumelie per la povera Bruxelles, responsabile di ospitare l’obsoleta NATO e la fedifraga UE.
America First da quella parte dell’Atlantico e Global Britain da questa dovrebbero essere i pivot della nuova mappa geopolitica: sotto le insegne dell’egemonia bianca e anglo-sassone con le propaggini in Canada, Australia, Nuova Zelanda.
Alla cerimonia dei 70 anni parteciparono Barack Obama e Vladimir Putin. Quest’ultimo è ora colto nel colloquio con Xi Jinping, a contrappore l’altro asse (del comunismo d’annata?) a quello anglo-sassone.
A stretto giro, la Russia annuncia di voler uscire dall’accordo nucleare con gli USA, così vanificando gli sforzi di Reagan e Gorbaciov. Riparte la corsa all’arma finale, con Iran e Nord Corea a collaborare. Il progredire del tempo non porta il progredire della distensione.
Mentre a Londra si attendono i fasti del recesso, a Strasburgo i tre gruppi maggioritari (Popolari, Socialisti e Democratici, Liberali) si coordinano circa la nomina dei vertici istituzionali. Nessun nome per non bruciare i candidati, solo un’intesa di massima per assegnare le figure apicali della Commissione, del Consiglio europeo, del Parlamento, della BCE.
Per il Consiglio europeo spunta il nome di Enrico Letta. Non è la prima volta, accadde all’epoca del Governo Renzi, allora prevalse il polacco Donald Tusk. Parrebbe anche ora una candidatura di bandiera, volta più a mettere Roma alle strette che a portarla avanti davvero.
Nessun italiano partecipa alle riunioni preliminari. Non c’è da stupirsi. Le tre famiglie politiche fanno riferimento a governi affini negli stati membri, i nostri partiti maggioritari non sono schierati in alcun gruppo di rilievo, sono giocoforza ai margini dei conciliaboli. La delegazione italiana al Consiglio europeo di fine giugno sarà comunque chiamata a dire la sua, ma partendo in ritardo rispetto alle altre.
Che il cerchio europeista si stia chiudendo, lo dimostra il fatto che l’euro-scettico per eccellenza, l’ungherese Orbàn, sta riscoprendo i pregi dell’ortodossia popolare. E cioè i meriti delle politiche di coesione che hanno consentito all’Ungheria passi da gigante nella ricostruzione civile. Accade a Budapest: la critica sì, la crisi no. Il modello britannico resta senza proseliti, almeno finché Brexit non dispiegherà i benefici.
Le scaramucce bilaterali continuano fra Italia e Francia. L’ultima in ordine di tempo riguarda la fusione, subito “sfusa”, fra Renault e FCA. Il quadro politico non è propizio a Parigi, dichiara il Presidente FCA. Parigi replica che la responsabilità è di Nissan, il socio giapponese di Renault. Resta di là da venire una politica europea dell’automotive nel declino del diesel a favore dell’elettrico, puro o ibrido. Il vuoto dell’Europa è sempre una buona notizia per i concorrenti terzi.
Cosimo Risi