Ero un ragazzo selvaggio, proprio come il protagonista del film di Truffaut. E neppure diciottenne avevo una convinzione: un giorno avrei creato qualcosa di speciale, non solo per me e per la mia terra.
All’inizio mi hanno dato del folle. E c’è chi ne è ancora è convinto. Tutto sommato, non è che avessero torto. Perché senza un briciolo di pazzia, forse tutto questo, oggi non sarebbe realtà. Facciamo un salto indietro. Cinquant’anni sono tanti, ma non troppi da non poter essere ricordati.
E io con la memoria non scherzo, perché è il mio patrimonio più prezioso. Era il 20 novembre del 1970. Ero qui, in questa piazza, di fronte alla fontana di ispirazione vanvitelliana a guardare l’acqua sgorgare dalla bocca dei pesci. Uno mi porterà fortuna per tutta la vita, anche se non vi dirò mai quale è. Cercatelo da soli, la fortuna, come si dice, aiuta gli audaci. Era venerdì, dicevamo.
Ed io ero qui, in un paesino di 8500 anime che avevo già battuto in lungo e in largo, armato della mia cinepresa Super 8 con un diaframma a mano. Con quella preziosa compagna di avventure avevo già girato due film, L’età dei sogni e La vita di un povero diavolo. L’eco del Sessantotto era ancora forte, anche se, dal perimetro di Giffoni, non ne percepivo fino in fondo la rivoluzione. Il cinema era l’unico strumento che avevo per riuscire a volare oltre quella piazza.
Era il cinema ad accendere il mio sorriso e quello dei miei compagni. Avevo chiesto a Gennaro Falivene, medico dentista, nonché proprietario di una delle due sale cinematografiche cittadine, il cinema teatro Valle, di poter gestire l’attività durante la settimana. E siccome mi voleva veramente bene, mi diede questa straordinaria possibilità: è stato lì che ho imparato a fare l’operatore di cabina quando le macchine da proiezione non erano ancora automatizzate.
La sera, poi, dopo i film, ci riunivamo per parlarne. Discussioni fiume, dinanzi a un buon calice di rosso, sedotti dalle ideologie, certi di poter cambiare il mondo, infuocati di voglia di crescere e sovvertire gli schemi. Ero innamorato di Pasolini, le sue parole, i suoi film, gli scritti corsari. E quante volte proprio su Pasolini abbiamo litigato, io e i miei compagni. Ma anche questo era vitale, perchè lo scontro, se non scivola nella violenza, lo è sempre.
Erano gli anni di piombo e niente era facile: neppure raggiungere Salerno che dista appena mezz’ora di macchina. Avevo qualcosa dentro, come un vulcano che dovesse esplodere da un momento all’altro. Poi, un giorno, riuscii a dare un nome a quel fermento: i bambini.
Avete letto bene. Avevo preso a convincerli a venire al cinema, incontrandoli in classe uno per uno, banco per banco, sedia per sedia. Finchè non mi dissi: perché non organizzare un festival dedicato a loro? Fui fedele alle promesse. E mai mi sono scoraggiato, anche se di motivi ne avrei avuti tanti. Non c’erano soldi. Bene. Imparai a suonare l’organo in chiesa per raccimolarli. Pochi, pochissimi, ma era pur sempre una base di partenza per costruire, mattone dopo mattone, questo miracolo.
Bussai a tutte le porte, chiedendo mille lire a chiunque fosse disposto a investire in un sogno. Mia madre si mise ai fornelli per sfamare i primi ospiti. Mio padre era una presenza fissa in banca dove si recava a scontare le cambiali accese per finanziare il progetto. Gli amici più stretti si prestavano a fare gli autisti e riuscii perfino a convincere i monaci ad aprire le porte delle loro celle per trasformarle in un umile ma dignitosissimo albergo.
Non furono anni facili: le ostilità erano forti, perché se c’erano gli amici a darmi energia, insieme ai cittadini del mio Comune che mi hanno sempre protetto con il loro amore e il loro rispetto, c’erano anche i non amici che mi guardavano con sospetto, alle volte con ostilità. E quell’ostilità, quella scarsa fiducia, diciamolo, quella mancanza di visione, si è spesso tradotta in azioni concrete che avrebbero potuto spingere qualcuno meno folle di me a mollare tutto.
Troppo facile. La vita è una sfida continua. E io che non ho mai pensato al tempo come una linea retta, fedele alla visione concentrica cara al mondo greco, non ho mai immaginato di abbandonare il cinema e i miei sogni. Un giorno invitammo per un convegno il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Domenico Meccoli. Fu lui a dire che il festival era nato per germinazione spontanea e che era il luogo dove una persona diventa evento. Una frase che io mi porto ancora cucita al cuore, perché è stata la mia linfa anche quando le porte, anziché aprirsi, mi venivano chiuse in faccia. E faceva male, molto male.
Diceva Josephin Hart che chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa di poter sopravvivere. Non so se sia vero. Ma di certo chi incontra ostacoli diventa più forte. E quella forza, se incanalata sui binari giusti, produce miracoli. Almeno per me è stato così, perché senza presunzione, alla vigilia del nostro primo mezzo secolo di vita, posso dire di averlo realizzato.
Per me, per il mio paese, per la Campania e per l’Italia tutta. Non penso solo a quando arrivò, in questa valle allora desolata, il mitico Fracois Truffaut con la splendida Fanny Ardant, a quando Robert De Niro snobbò Venezia per essere nostro ospite, alle lettere di Maryl Streep o a quando Jon Voight mi chiese di portare il festival ad Hollywood. Potrei fare migliaia di esempi.
Ma più che l’affetto delle star, che con noi tornano ogni volta bambini, riscoprendo il valore del contatto umano con il pubblico, quello che mi fa capire che la mia intraprendenza è stata fondamentale per costruire un modello di successo, sono gli occhi e i sorrisi dei nostri giffoners, i loro inviti alle lauree e ai matrimoni, la voglia di condividere con noi i loro successi umani e professionali. Mi sento un po’ padre di ognuno di loro. E sapere di avere milioni di figli in tutto il mondo, è il regalo più bello che la vita potesse farmi. Questo, oggi come ieri, mi aiuta ad andare avanti.
A superare le fratture, le invidie del passato e quelle che ancora, inevitabilmente, incontreremo nel nostro cammino, la cecità di certa politica e di certi amministratori, l’inedia di alcune fette di territorio che ancora non comprendono la rivoluzione che è stata messa in atto e che si traduce in economia, turismo, lavoro, ricchezza. Cinquant’anni dopo sono ancora qui.
A guardare la stessa fontana del 1970. Il tempo non ha fatto invecchiare né la passione, né la voglia di costruire. E i polsi mi tremano ancora, oggi come ieri. Perchè di sfide da vincere ne abbiamo ancora tantissime. Quel venerdì di novembre, bagnato dalla pioggia, mi diedi un obiettivo e pronunciai una frase che sarebbe poi passata alla storia. Questa frase mi è chiara come se fosse scolpita sulla mia pelle: un tatuaggio fortissimo scaturito dalla potenza di una energia che desiderava uscire dalla mia testa. : “Ragazzi, lunedì si parte”. Per andare dove? E come? Non me lo sono chiesto.
E’ così che nasce il Giffoni Film Festival: da un grido di passione e dalla voglia di mettersi in gioco. E oggi tutti insieme viviamo questo cinquantesimo dell’idea di Giffoni, in attesa del 2020. Non ho mai avuto paura dei viaggi, soprattutto di quelli del pensiero. Se oggi guardiamo a quel giorno, ne abbiamo fatti di viaggi, veri, strutturati, rivoluzionari, fortemente innovativi. Desidero condividere questo momento con voi e con milioni di persone ammaliate e cresciute con questa bellissima storia italiana.