Come è noto, la ciclopica opera di salvaguardia della laguna di Venezia, pensata per evitare gli effetti devastanti di fenomeni eccezionali collegati ad eventi naturali prevedibili e non, è stata progettata all’incirca a metà degli anni ottanta dello scorso secolo, secondo le caratteristiche tecniche al tempo conosciute e sperimentate, connesse alle cc.dd. barriere anti-intrusione delle acque.
Per questi motivi, mi paiono non pertinenti le osservazioni che si appuntano sull’esclusione (colpevole e non) di altri strumenti utilizzati, ad esempio, in Olanda o in Inghilterra, laddove le opere sono state progettate e immediatamente eseguite nella metà del primo decennio di questo secolo.
Invero, quegli ordinamenti non conoscono i devastanti effetti di indagini penali che in Italia hanno riguardato eventi di corruzione, anche connessi alla vicenda del Mose, indagini che hanno finito per bloccare per circa quindici anni i lavori: è invalsa, infatti, la tendenza di provvedimenti impeditivi che bloccano l’esecuzione degli appalti, in attesa della definizione del processo penale (e tanto, considerate le lungaggini dei processi nel nostro Paese, mi pare già un’evidente assurdità).
Dappoi, in quei Paesi non è dato riscontrare l’ invadenza della giustizia amministrativa che, a seguito di ricorsi presentati dagli ambientalisti e dai concorrenti nelle varie fasi di aggiudicazione delle opere, ha contribuito a bloccare sine die l’esecuzione dei lavori.
Il Mose è così diventato “vecchio”, ma non per difetti strutturali genetici del progetto, quanto per i ritardi che, a vario titolo, hanno inciso su un’ opera essenziale per la salvaguardia della laguna e per la protezione della città di Venezia.
A ciò si è aggiunto un costume ormai diffuso. I commissari, per evitare sempre possibili azioni della magistratura penale e contabile, hanno preferito (e come dare loro torto !!) non attivare le barriere protettive (anche per il mancato completamento del sistema di sollevamento).
E qui si innesta, purtroppo, un altro aspetto della vicenda che ormai attinge tutti i pubblici amministratori e chi ricopre incarichi pubblici: non assumere le proprie responsabilità per paura di incorrere in (magari) improvvide iniziative giudiziarie (e quanti esempi si possono riscontrare anche nella nostra Regione).
E’ una vera e propria fuga dalle responsabilità che ormai caratterizza la vita del nostro Paese, e che produce effetti devastanti sull’efficienza e sull’efficacia delle azioni amministrative, le cui scelte – sempre nei limiti della legge, ma in costanza della discrezionalità che le caratterizza – sono sempre sottoposte a valutazioni ex post compiute dall’autorità giudiziaria.
Questo circuito negativo va definitivamente interrotto, se si vuole evitare la costante decrescita, invero non troppo felice, del Paese, ricordando quello che è accaduto per i medici, i quali, a fronte dell’impluvio delle azioni di responsabilità civile e penale, hanno finito per perseguire una “medicina difensiva”, senza rischi eccessivi per i sanitari ma, a volte, esiziale per i pazienti.
Non mi pare che queste valutazioni siano state fatte oggetto di un’ opportuna analisi da parte dei commentatori, che hanno affrontato altre e pure rilevanti problematiche. Invero, sciogliere il nodo gordiano tra responsabilità e discrezionalità (endiadi di sicura evidenza per l’esercizio corretto dell’azione amministrativa) è urgente, anche per evitare i disastri irreparabili al nostro patrimonio storico e culturale, ai quali siamo stati costretti ad assistere in questi giorni bui e senza speranza.
Giuseppe Fauceglia