Invero, Sant’Alfonso non solo per circa un decennio, prima di assumere i voti religiosi, ha esercitato la professione di avvocato, ma soprattutto perché egli è autore di un bel libro, riedito dalla casa editrice Sellerio nel 1998, dal titolo “Degli obblighi de’ giudici, avvocati, accusatori e rei”.
Le pagine alfonsiane sui doveri dei giudici e degli avvocati non costituiscono solo un trattato di morale professionale (i cui fondamenti sarebbe il caso di ricordare anche oggi), ma rappresenta una ricca e completa disamina delle modalità in cui deve essere amministrata la giustizia e dei diritti del “reo”, tanto da porsi in continuità con l’impostazione innovativa dell’Illuminismo giuridico e delle pagine più interessanti del giansenismo lombardo.
Ritorno, allora, sul tema della giustizia, che mi pare essenziale in uno stato democratico, che ha a cuore i diritti dei cittadini, ricordando un esempio che ha segnato la mia esperienza professionale.
Si tratta della storia di un onesto e valente professionista, rimasto per circa dieci anni sotto inchiesta penale per riciclaggio, e che ha visto devastata la propria vita personale e professionale da un’indagine conclusa con un provvedimento del Giudice dell’udienza preliminare che ha dichiarato il non luogo a procedere “per non aver commesso il fatto”.
Le nuove norme sulla prescrizione, introdotte sull’onda della demagogia giustizialista, incidono pesantemente sui diritti dell’indagato o dell’imputato ad una celebrazione rapida del processo, e vanificano, in una evidente eterogenesi dei fini, la stessa valenza del processo penale, così come delineato nella Costituzione. In realtà, è in voga il principio, diffuso da autorevoli esponenti della magistratura, che ricoprono incarichi di rilievo, che, in fondo, “gli assolti siano solo dei colpevoli che l’hanno fatta franca”.
In questo modo, non ci si avvede che vengono distrutti i principi basilari dello stato giuridico moderno: la centralità del processo penale e del rilievo della verità processuale; il principio, acquisito già nell’età dell’ Illuminismo, “in dubio pro reo”; la presunzione di innocenza, che caratterizza in uno al principio della tipicità del reato e del giusto processo, la nostra Carta Costituzionale.
Proprio in relazione a questi principi è interessante leggere l’articolo di Mattia Feltri su “La Stampa” di venerdì, che ricorda, inorridito, le parole di Zingaretti, secondo cui Salvini dovrebbe andare dai magistrati per dimostrare la propria innocenza, e di Di Maio, che invita ad indagare chi abbandona il movimento in ragione di un dissenso sulla linea politica.
Si capovolge, in tal modo, l’intero impianto del disegno della norma penale “costituzionalizzata”, affermando non già il principio di “non colpevolezza”, che impone all’accusa ovvero al pubblico ministero di provare la colpevolezza dell’indagato, per capovolgerlo, addossando impropriamente a quest’ultimo di provare la propria innocenza. Si tratta, questo, di un elemento che emerge nella legislazione penale dei regimi autoritari, e che ha conosciuto anche in Italia, durante il periodo fascista, una sua pericolosa applicazione.
Ai principi irrinunciabili in una democrazia moderna ha abdicato sin dal 1992, per paura e per mediocrità, la classe politica ed anche i giornalisti, correi e spesso volontari carnefici dell’imputato, magari innocente, sottoposto alla devastante gogna mediatica.
Quando iniziai la mia attività forense, si era soliti ricordare la frase di un grande avvocato originario delle nostre terre, Alfredo De Marsico, secondo il quale “è meglio un colpevole assolto che un innocente in galera”. Ma ai nostri politici ciò non sembra interessare, mentre è evidente che, in una democrazia moderna, il principio riguardi tutti i cittadini, nessuno escluso.
Giuseppe Fauceglia