Dalla rivoluzione khomeinista dei Settanta del XX secolo alla guerra Iraq – Iran degli Ottanta fino alle due Guerre del Golfo (Novanta e primi Duemila) la famosa dinamite nella polveriera non è stata lanciata dal Presidente Trump, come vuole la vulgata dei Democratici, quanto dall’instabilità cronica del paese sopravvenuta al desiderio di potenza di Saddam Hussein ed al suo rovesciamento.
La sindrome degli ostaggi deve avere risolto la Casa Bianca a dare l’ordine fatale al Pentagono. Il ricordo della crisi degli ostaggi, trattenuti nell’Ambasciata americana a Teheran per 444 giorni, è serpeggiato nei corridoi americani del potere il 31 dicembre 2019.
Le milizie sciite, presumibilmente orchestrate da Qassem Suleimani e guidate dal suo luogotenente iracheno, hanno varcato la prima cinta della zona verde di Bagdad, quella che ospita le sedi diplomatiche e del governo.
L’incubo della presa di ostaggi si è profilato nel 2020 dopo che quaranta anni fa costò la rielezione a Jimmy Carter. Riviverlo avrebbe compromesso la rielezione di Trump, che invece appare più plausibile sia per i risultati economici e sia per il rinnovato rilievo internazionale.
E’ una partita ad alto rischio, le regole del gioco sono incerte, il comportamento dell’avversario è tanto minaccioso quanto fluido.
Il risultato immediato è nell’impennata del prezzo del petrolio. Iraq e Iran sono fra i massimi produttori e qualsiasi escalation bellica ne mette a repentaglio le esportazioni, già falcidiate in Iran dalle sanzioni internazionali.
Si aggiungano l‘instabilità della Libia e le convulsioni in Algeria e Venezuela per offuscare l’orizzonte. L’Europa si accinge a varare il New Green Deal, prima che produca effetti rilevanti ci vorrà tempo, a breve termine resta dipendente dagli idrocarburi.
La vendetta iraniana può colpire obiettivi americani e occidentali in generale, specie se gli occidentali sono fisicamente e politicamente contigui. La nostra Difesa ha rafforzato le misure a protezione dei contingenti all’estero.
Può indirizzarsi contro bersagli “facili” quali le petroliere in transito a Hormuz e le istallazioni saudite prospicienti il Golfo. E’ accaduto in passato: repetita iuvant.
Israele è esposto. Non è casuale il nome scelto da Qassem Soleimani per la sua brigata: Quds Force. Evocare Gerusalemme come luogo sacro all’Islàm è costante nella retorica di Teheran e non può che suonare da minaccia a chi ha eletto la città a capitale del proprio stato, con la benedizione americana.
L’attentato dimostra la potenza di fuoco che gli americani sono in grado di dispiegare nel Golfo e altrove. La bandiera che sventola nel tweet di Trump è il segno dell’orgoglio ritrovato prima che fosse irrimediabilmente ferito.
L’Europa si trova in evidente imbarazzo, stretta fra la doverosa solidarietà all’alleato americano e l’esigenza di salvare il salvabile dell’operazione che portò all’accordo sul nucleare iraniano. Dal 2015 a oggi i parametri sono mutati per l’assertività dell’Amministrazione repubblicana. L’Unione fatica a varare le contromosse: se allinearsi al nuovo corso americano o cercare una scappatoia con l’Iran all’insegna del “business is business”.
Da Roma si leva l’auspicio perché Bruxelles si muova per un’iniziativa che punti alla de-escalation. Giusta preoccupazione: i nostri militari in Iraq e Libano sono sulla linea di tiro. Basterà un appello per quanto accorato? La diplomazia declaratoria europea è efficace in tempi calmi, col mare agitato rischia di perdersi nel fragore delle onde.
Si esita ad ammetterlo: il pallino della diplomazia passa a Mosca, la sola capitale in grado di parlare agli uni e agli altri con un certo grado di credibilità.
di Cosimo Risi
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