L’attacco oggi sferrato dal populismo al “valore” delle norme costituzionali rischia seriamente di mettere in discussione la stessa convivenza civile: non si tratta, allora, di un dibattito meramente teorico, ma della necessaria difesa di principi irrinunciabili, per altro solennemente riaffermati anche dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, per la cui violazione – tra l’altro – lo Stato italiano è stato più volte condannato.
Il tema della prescrizione e della sua eliminazione nel grado di appello, è stato già sviluppato nelle mie precedenti riflessioni: si tratta di ricercare un giusto equilibrio tra l’esigenza di celerità ed efficienza del processo penale, per non vanificare la legittima funzione esercitata dalla magistratura di accertare e valutare i fatti a rilevanza penale, e quella, altrettanto rilevante, di non sottoporre il cittadino indagato e lo stesso cittadino condannato ad un processo “senza fine”.
Non si nasconde che dalle stesse Istituzioni europee è venuto il monito di apprestare una adeguata disciplina del processo penale, che tenga conto della celerità dei tempi processuali e della necessità di evitare impropri fenomeni di estinzione del giudizio, qual è la prescrizione.
Una classe politica non ispirata dall’ “invidia sociale” ben avrebbe potuto, allora, per altro in presenza di una forte maggioranza parlamentare, prevedere una riforma del giudizio di appello con la previsione di tempi rapidi per la sua celebrazione e dappoi riformare l’istituto della prescrizione; oppure, ancora, prevedere una sospensione “ragionevole” del tempo della prescrizione nel corso del giudizio di appello (ad esempio, indicando in tre anni il tempo della sua celebrazione).
Invece, si è proceduto, e solo per soddisfare l’immediatezza di un risultato a tutto vantaggio di interessi elettorali, ad eliminare la prescrizione nella fase di appello, così prospettando, in sostanza, un “processo senza fine”.
Il tentativo oggi perseguito, ovvero quello di escludere la sospensione per il cittadino assolto in primo grado e di prevederla, invece, per il condannato, viola il principio costituzionale della presunzione di innocenza.
Un’ultima annotazione: dai commenti ai miei precedenti articoli, lettori poco avveduti hanno notato che la prescrizione è istituto utilizzato dagli avvocati degli imputati più ricchi, non valutando, per oggettiva ignoranza della problematica, che in gran parte la prescrizione matura prima ancora che venga celebrato il processo (circa il 70% dei casi, come dimostrano le statistiche); che le norme processuali già prevedono una sospensione della prescrizione, ad esempio nel caso di rinvii del processo per impedimento del difensore; che per alcuni reati, come la corruzione o i reati economici a rilevante impatto sull’ “interesse pubblico”, il termine per la prescrizione resta lunghissimo.
Allora, non si possono addossare al cittadino, in violazione dei principi fondamentali innanzi ricordati, le inefficienze delle strutture giudiziarie e, a volte, la stessa pigrizia di chi dovrebbe giudicare. La norma introdotta dalla maggioranza giallo-verde, e dappoi confermata dalla maggioranza giallo-rossa, viola, come formulata e “pensata”, palesemente le norme costituzionali.
Queste conclusioni sono state fatte proprie non solo da giuristi di chiara fama (ad esempio, Sabino Cassese, già Presidente della Corte Costituzionale), ma da politici avveduti (come l’eurodeputato, già Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia) e dagli stessi magistrati (come Raffaele Cantone, già Presidente dell’Autorità Anticorruzione).
Il disegno abrasivo dei principi costituzionali è, invece, condotto con pervicacia da chi, vero e proprio ispiratore culturale delle “riforme” volute dal populismo giustizialista, sostiene non solo l’eliminazione della prescrizione, ma nega ogni valore al diritto di difesa e teorizza la sostanziale infallibilità dei pubblici ministeri e dei giudici (in barba alla stessa funzione giurisdizionale e dimenticando i numerosissimi casi di errori giudiziari o di completa assoluzione a seguito di interminabili processi).
Purtroppo, nel prospettare soluzioni apparentemente efficientiste, vi è chi (penso all’eurodeputato Roberti), intende addirittura incidere sull’appello, eliminando la reformatio in pejus, che consiste nell’ escludere condanne più gravi di quelle comminate dal giudice di primo grado, oppure (mi riferisco a Davigo), addirittura, di prevedere sanzioni nei confronti del difensore che proponga appelli infondati (dimenticando che è la stessa Corte di Cassazione a mutare significativamente la propria giurisprudenza). Si tratta di un principio che, come ricorda Giorgio Spangher (uno dei più illustri giusprocessualisti italiani), neppure il fascismo aveva messo in discussione.
Tutto ciò avviene in un Paese dalle coscienze addormentate dal veleno della politica, annoiato e deluso, ma è proprio questo il terreno in cui si sviluppano i germi di un singolare e pericoloso autoritarismo, questa volta possibile frutto di una singolare concorrenza tra una inconsapevole classe politica e una parte della magistratura, che intende edificare un vero e proprio monumento ad un panpenalismo che potrebbe minare il fondamento della stessa democrazia.
E vorrei ricordare che in uno Stato autoritario, come la Turchia, la concorrenza tra potere politico e magistratura è proprio il disegno perseguito da Erdogan, con la carcerazione o l’espulsione dall’ordine giudiziario dei magistrati ritenuti più indipendenti.
Giuseppe Fauceglia