L’assembramento di elementi della destra nazionalista, in testa gli austriaci ai quali gioverebbe una ripetizione di storia del Novecento, testimonia della volontà di impedire l’accesso ai profughi siriani. Alcuni inalberano striscioni, altri, i greci di Alba Dorata, si vantano di andare a caccia di profughi con armi e cani, tutti uniti nel bloccare lo straniero.
L’ultima, in ordine di tempo, puntata della tragedia siriana è il bombardamento di Idlib a opera dei Turchi e dei Siriani, ciascuno per motivi opposti all’altro ma convergenti nel risultato, e la fuga dalla città di un milione di abitanti. Una parte si accampa alla buona nelle vicinanze sperando di rientrare appena il clima ridiventa respirabile.
Un’altra parte si muove verso la Turchia. La promessa di Erdogan di aprire i varchi con l’Unione europea vale la trasferta: l’Unione è la salvezza, là si può contare sull’accoglienza dovuta ai profughi da conflitti.
Dall’altra parte della frontiera sono appostate le forze militari e di polizia della Grecia. Il nuovo Governo di centro-destra è meno generoso del predecessore. L’ordine è di usare mezzi sbrigativi per tenere lontani i profughi e, insieme, le temute infiltrazioni di elementi provocatori turchi.
Nonostante la comune appartenenza alla NATO e i vari tentativi di normalizzazione, la Turchia resta il rivale storico, la Grecia ne diffida come di un falso amico pronto a tradire alla prima occasione. Le rivendicazioni territoriali fra i due paesi non si contano, da ultimo l’accordo fra la Turchia e la Libia di Serraj per prospezioni petrolifere in una zona di mare contesa con Cipro e Grecia.
La Bulgaria, l’altro stato membro di prima linea, ha già eretto barriere a protezione. Non importa che sia Grecia che Bulgaria sarebbero i punti di transito dei fuggitivi, il cui approdo ultimo è l’Europa centrale, Germania in testa. Importa che i profughi non si assestino nei rispettivi territori da cui la stentata solidarietà europea li tirerà via con estenuante lentezza. Delle riassegnazioni si ha più traccia nei documenti di Bruxelles che sul campo. Giusto diffidare.
A fronte della prima ondata (2015) si disse che Angela Merkel “salvò l’onore d’Europa”, dichiarando che avrebbe accolto fino a un milione di persone. Pagò l’apertura con una serie di insuccessi elettorali che portarono la destra a superare gli argini, fino all’onda lunga della recente vittoria in Turingia. Il che dimostra il teorema che le opinioni pubbliche europee, superato il primo impulso all’accoglienza, si chiudono se la massa degli arrivi varca una soglia critica.
L’Unione paga doppio il disimpegno politico e militare a cospetto di una crisi che da anni si consuma sotto ai nostri occhi. Qualcosa di analogo accadde nella Jugoslavia degli anni novanta del XX secolo. La reazione europea giunse tardiva e solo dopo che gli americani garantirono la copertura. Allora si giurò “mai più”, il giuramento si rivela di breve durata se ora assistiamo ad un fenomeno analogo.
L’Europa, con o senza il Regno Unito, avrebbe la forza per interporsi fra i contendenti e imporre le condizioni della tregua. E invece il cessate il fuoco è negoziato da Turchia e Russia nel lungo incontro al Cremlino. Sei ore di discussione fra Erdogan e Putin con momenti di scontro e infine di convergenza.
Un membro NATO opera al di fuori del quadro atlantico intervenendo in un paese terzo come la Siria a caccia di irredentisti curdi. Preme sui partner agitando la minaccia di lasciare liberi i profughi che ospita, a pagamento, sul proprio territorio. Sa bene che la pressione di milioni di persone sarebbe esiziale per un’Europa già stremata dal contagio da virus.
Alla Russia riconosciamo la rappresentanza esterna della Siria e la cura dei nostri interessi nell’area. Che la strategia russa ci rechi vantaggio, è un gradito accidente. Ma resta un accidente. Urge che Bruxelles, e non le singole capitali, trovi un modus vivendi con Mosca. Ne va della nostra integrità.
di Cosimo Risi
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