Gli spazi angusti stanno stretti a Carlo, Carlito, Salazar. Da ragazzo, quando il padre lo portava alle funzioni nella piccola Sinagoga, a ridosso della mechitza che separava gli uomini dalle donne e restringeva ancora di più l’ambiente, gli mancava il respiro, dava colpi nervosi di tosse, era in preda a frenesia motoria. Per non parlare del Lince sulla via per Bagdad.
Il botto della granata si riverbera all’interno come amplificato da cento casse Bose, lo stordisce al punto che crede di essere finito nell’aldilà, il viso annerito dell’Ufficiale del reparto speciale gli fa capire che se quello è il paradiso, deve essere un postaccio, non è il paradiso, è la carcassa del mezzo corazzato. Da allora nessuno spazio angusto lo avrà, può affrontare i quattro piani a piedi fino all’attico, lungo la scala che dal marmo dell’androne vira al travertino.
Sul pianerottolo, davanti all’unica porta aperta, arriva col fiatone e con la giacca che gli aderisce alle ascelle, malgrado che all’ultima rampa l’abbia sbottonata. Il sarto napoletano segue il dogma di cucire gli abiti addosso: “devono essere sucatielli” è la risposta ai clienti che li vorrebbero comodi, e finisci che non puoi stendere le braccia quando guidi e basta una botta di calore perché si attacchi al corpo come una muta.
La giacca però non la toglie, un poliziotto in maniche di camicia, cravatta slacciata, fondina ascellare in mostra, fa detective americano da telefilm, ci manca solo il bicchiere di cartone con la cannuccia a sorbire il bibitone che osano chiamare caffè. Lui, la Beretta, la tiene agganciata alla cintura.
Per non rovinare la linea del vestito ha provato a lasciarla nel cassetto, solo che se i collaboratori se ne accorgono, è capace che scrivono al Questore. Da quando è scoppiata la faccenda del terrorismo, le istruzioni sono che tutti devono girare armati, anche fuori servizio, i dirigenti diano l’esempio.
La collaboratrice domestica lo guarda con aria sospettosa. Che sia un testimone di Geova o un venditore di Folletto? Il Vice Questore le mostra il tesserino con lo scudetto della Polizia di Stato. Quella legge il nome e, coerente col colorito olivastro da sudamericana, attacca a parlargli in uno spagnolo così rapido che Carlito, che pure conosce il castigliano dalla mamma sefardita di Andalusia, fatica a starle dietro.
- Es usted un policìa? Hay una tragedia aquì. Muy grande.
- Parla italiano? E allora continuiamo in italiano perché tutti capiscano.
- Pero usted tiene un nombre ispanico: Salazar:
- Non importa il mio nome, continuiamo, la prego, in italiano. Per il rapporto.
- Rapporto? Quale rapporto? Que intiende?
- Non rapporto personale, Signora…?
- Bertha, soy Bertha, la domestica de la casa, la collaboratrice della Signora que ahora esta muerta.
- Posso entrare?
Bertha lo ammette nel vestibolo e di là lo guida verso il salotto. Sulla porta staziona il sorvegliante dello stabile, lo si capisce dalla divisa grigia con le mostrine sulle spalline manco fosse il sottufficiale di chissà quale armata. Un pezzo d’uomo, i capelli biondastri tagliati di netto, il viso appuntito e segnato da rughe precoci, gli occhi così chiari da sembrare trasparenti. La voce è sommessa, da diaframma ben controllato. L’italiano è neutro come appreso in qualche scuola serale.
- Nessuno ha toccato nulla da quando sono arrivato in casa.
- Lei è…?
- Oleg Olevsky, il sorvegliante dello stabile. Vigilanza H24. Sono di turno oggi. Qui abitano il Procuratore Generale, il Senatore, lo Sceneggiatore. Gente importante che pretende di stare tranquilla in casa.
Sarà la voce di petto, sarà che l’udito del Vice Questore ha qualche deficit, Salazar pare non afferrare le parole dell’altro e resta come interdetto. Oleg lo capisce e fa per avvicinarsi. Salazar si contrae, già gli pesa la corporatura smilza da cui il fardello del Carlito che gli affibbiarono al liceo, ora trovarsi a cospetto di quel gigante dell’Est che torreggia su lui è insopportabile. D’Antonio si interpone e invita Oleg a sedersi in poltrona e aspettare là che il Vice Questore – scandisce la qualifica del superiore – gli rivolga le domande di rito.
Il Vice Questore non ha voglia di porre domande né di attendere risposte, deve prima farsi un’idea. Chiede a tutti di allontanarsi dalla scena del delitto, vuole restare solo col cadavere, s’illude di sintonizzarsi con la vittima per farsi raccontare l’accaduto. D’Antonio è scettico, lo lascia fare, sa che, a contrariarlo, quello s’incazzerebbe. Pare una pratica da menagramo, proibito però farne parola in giro, la fama da schiattamuorto stronca una carriera più dell’insuccesso professionale.
Salazar si accoscia accanto al corpo di una donna dai capelli castani, non giovane né anziana, ben vestita e meglio curata. Doveva essere piacente e desiderosa di piacere, lo capisce dal dettaglio delle gambe tornite e coperte da calze a rete agganciate alla guepière, la sinistra mostra una smagliatura, certo non di sciatteria. Le mutandine scure sono di pizzo e coordinate al reggiseno che spunta dalla scollatura. La testa è piegata di lato, reca una grossa ferita a sinistra, il sangue è uscito a formare una piccola pozza sul pavimento. Poco distante, una statuina di bronzo raffigurante Budda è sporca di sangue e materia cerebrale. La osserva senza toccarla, non ha i guanti per i reperti. Qualcuno intendeva ucciderla o solo farle male? Sente che la donna lancia un messaggio di sensualità e delusione.
Parte seconda – segue.
di Cosimo Risi
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