Lo scorgo seduto a un tavolino di un vecchio bar, affacciato sul lago di Costanza.
Il cuore mi sobbalza in petto, corre veloce. Lo osservo mentre scrive, su un foglio grigio chiaro. Poggiato sul tavolo, alla sua sinistra, c’è una copia della rivista Simplicissimus. Intravedo l’anno: 1907. Il suo corpo è esile. Ha un borsalino chiaro con una fascia color tabacco schiacciato sul capo. Gli occhi acuti dietro ai mitici occhiali tondi si alzano e cercano. Mi vede, intreccia il mio sguardo. Il cuore riprende un ritmo accelerato. Da ragazzo, è stato lo scrittore che più ho amato. Ho immaginato mille volte di parlargli ed ora è lì davanti a me. “Guttmorghen” lui mi dice; “Buongiorno, Herman”, sussurro.
Butto lo sguardo al Simplicissimus, c’è un suo scritto in prima pagina, l’odore di carta stampata mi penetra nelle narici; mi siedo accanto a lui e rimango in silenzio. Sto bene anche senza parlare, questo mi accade solo con gli amici veri.
Vorrei raccontargli dell’estate del 2002 (95 anni dopo quest’incontro), ma alla fine decido di non raccontargli del suo futuro. La riporto alla mia memoria quell’estate nel Baden-Wuttemberg, con il camper, mia moglie, i miei figli. A inseguire i suoi luoghi, il lago, il Reno, Tubinga e infine Montagnola a visitare il museo a lui dedicato: la sua macchina da scrivere, i suoi acquerelli e quel senso di inquietudine che mi pervadeva e che scomparve solo dopo aver deciso di andare a visitare la sua tomba.
Arrivammo al piccolo cimitero di Sant’Abbondio mentre le ombre dei cipressi iniziavano ad allungarsi. In quel piccolo cimitero è sepolto Hermann Hesse. Non è stato facile trovare il suo sepolcro. Eravamo quasi sul punto di desistere quando finalmente eccola. Chi ama questo scrittore, chi ce l’ha dentro, può comprendere l’emozione. Lì, in un nodo, si intrecciarono tutti i percorsi che inseguivo da anni: la sua storia, i suoi libri, i suoi luoghi, i miei pensieri.
Una piccola tomba all’ombra, ricolma di fiori e vasi profumati. Una semplice lapide di pietra con inciso il suo nome, nulla più.
Ritorno, infine, in quel vecchio bar sul lago a osservare Herman.
Non riesco a lasciarmi andare all’incontro immaginario, forse è colpa di questo tempo che non lascia spazio ai sogni. In questi giorni siamo tempestati dai numeri, li analizziamo in ogni modo per capire a che punto siamo, alla ricerca di qualche segnale che ci dica che la tragedia che stiamo vivendo si sta ridimensionando.
Il numero dei nuovi casi, il numero dei ricoverati, il numero dei pazienti in terapia intensiva, il numero dei morti; numeri… numeri che si rincorrono e ai quali chiediamo spiegazioni, cercando di interpretarli nel modo più giusto, ma ti accorgi che comunque li approcci ti restituiscono un’analisi spietata.
Numeri… numeri, poi all’improvviso ti comunicano di un Amico che non ce l’ha fatta e poi un altro… i numeri diventano volti, i volti diventano storie di una vita e allora ti prende una tristezza sconfinata.
Provo a rifugiarmi nel mio sogno, con la mente ritorno al mio incontro. Vorrei sentire da Herman cose concrete, che restituiscano all’uomo la propria anima. Parlo lentamente, ma la domanda è precisa: “Herman, cos’è un uomo per te?”.
Lo scrittore ha un attimo di incertezza, poi dice, tranquillamente: “La vita di ogni uomo è una via verso se stessi, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero.
Nessun uomo è mai stato interamente se stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, ognuno come può”.
Lascio che Herman continui a parlare e mi soffermo ad ammirare il lago sul quale si riflette una luce tenue che vibra timida. Poi mentre un riflesso gli illumina il volto ritorno al mio interlocutore
“Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso, ma ognuno tende alla propria meta. Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso.”
Ritorno a osservare il lago la cui superficie è ora lievemente increspata da una brezza che giunge da est. Poi Herman mi guarda e dice: “La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come le stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in sé stessi la loro legge e il loro cammino”.
Parliamo a lungo, il suo dire mi riporta ai miei venti anni ai pensieri di allora e in quei pensieri sto finalmente bene. Infine mi saluta in maniera affabile e si allontana. Io rimango ancora seduto per un po’ mentre lo osservo andare verso il lago, poi esco anche io e ancora una volta sono attratto dalla superficie dell’acqua, ora rischiarata dal sole.
Un bimbo lancia un sasso nell’acqua. Partono onde concentriche che si allargano sempre più; mentre le osservo penso che prima o poi le onde scompariranno e la superficie ritornerà piatta… prima o poi.
di Vincenzo Capuano