A determinare le caratteristiche del coronavirus “occidentale” è stato un team di ricerca internazionale composto da scienziati dell’Istituto di Virologia Umana dell’Università del Maryland, dell’Unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell’Università Campus Biomedico di Roma, dell’Università di Trieste e della Elettra Sincrotrone e della Ulisse BioMed del capoluogo del Friuli Venezia Giulia. Gli scienziati, coordinati dal professor Robert Charles Gallo (uno degli scopritori del retrovirus dell’HIV, responsabile dell’AIDS) e dall’epidemiologo molecolare Massimo Ciccozzi, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato oltre 200 sequenze genomiche del SARS-CoV-2 ottenute da campioni biologici estratti da pazienti di tutto il mondo, tra la fine del 2019 e marzo 2020. Le sequenze prese in esame sono caricate sulle banche dati genetiche internazionali National Center for Biotechnology Information (NCBI) e Global Initiative on Sharing All Influenza Data (GISAID), dove tutti gli scienziati possono inserire le proprie e consultare quelle degli altri per studi ad hoc.
Ma cosa hanno scoperto esattamente i ricercatori? Dall’analisi delle sequenze hanno notato l’emersione di una specifica mutazione nei ceppi di coronavirus presenti in Europa e America, verificatasi lo scorso 9 febbraio. Coinvolge un enzima chiamato “polimerasi RNA dipendente”. Poiché questa molecola gioca un ruolo fondamentale nella replicazione del coronavirus all’interno delle cellule umane e controlla la sua capacità di mutare, con la sua mutazione il virus è diventato più “instabile”, determinando un potenziale tasso di mutazione e una contagiosità superiori. Da quando questa modifica è emersa nel lignaggio europeo, del resto, è stato stato registrato un vero e proprio boom di contagi, come mostra la mappa interattiva messa a punto dall’Università Johns Hopkins. Secondo alcuni studiosi, in America la diffusione della COVID-19 (l’infezione scatenata dal coronavirus) sarebbe legata proprio al ceppo circolante in Europa, e non a quello asiatico. Nel mondo, in base ai risultati di uno studio guidato da scienziati dell’Università di Cambridge, ci sarebbero tre tipi di coronavirus (Tipo A, Tipo B e Tipo C) con caratteristiche differenti, ma i lignaggi sarebbero almeno 8, secondo le rilevazioni del portale NextStrain.org, dove vengono caricate le informazioni genetiche del coronavirus.
Le modifiche individuate nel coronavirus e il suo tasso di mutazione sono informazioni preziosissime per gli scienziati, poiché più il patogeno muta e maggiore è il rischio che la “memoria immunitaria” legata a un potenziale vaccino o a un’infezione pregressa possano non proteggere a lungo. C’è ancora molto da capire del nuovo virus, e laboratori di tutto il mondo sono impegnati nell’ottenere un vaccino nel tempo più rapido possibile (già partita la sperimentazione sull’uomo di 3 di essi); la speranza è che il virus possa essere eradicato prima che le mutazioni lo rendano più difficile da colpire. I dettagli della ricerca italo-americana sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Translation Medicine, al momento in prestampa.
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