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“Rilancia Italia”: la rinuncia alla razionalità al tempo del Coronavirus

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Dopo settimane di gestazione e di tensioni politiche nella maggioranza che sostiene il Governo, mercoledì sera, con la solita “pomposa” conferenza stampa,  è stato dato il  via libera del Consiglio dei Ministri al c.d. decreto “Rilancia Italia”, che conterrebbe una manovra economica complessiva di circa 55 miliardi di euro.

Vengono ripetuti gli errori del passato, ivi compreso quello di “annunciare Urbi et Orbi” un complesso di norme non ancora definite né contestualmente pubblicate in Gazzetta Ufficiale. Ma la politica trasformata in operetta, grazie ai vari Casalino, è ormai diventata una costante alla quale corriamo il rischio di abituarci, nonostante  le  centinaia di migliaia i lavoratori che non hanno ancora percepito le indennità relative alla cassa integrazione guadagni.

Nell’esaminare sinteticamente il decreto in oggetto, si rileva immediatamente l’assenza di qualsiasi disposizione in favore del personale sanitario impegnato nell’emergenza della pandemia.

Durante la crisi, medici ed inferimieri sono stati chiamati “gli angeli dal camice bianco”, ma oggi sono rimaste solo le belle espressioni (secondo una consolidata tradizione dell’italica genìa), mentre manca nel provvedimento ogni riferimento all’incremento dei fondi da impegnare nella contrattazione integrativa per le indennità di servizio, nonché una disposizione (pure promessa dal Governo) per lo scudo penale e civile, necessario per difendere il personale sanitario da eventuali cause che dovessero essere proposte.

Resta frutto di una vera e propria ideologia “anti  impresa”  – ascrivibile    ab origine al movimento pentastellato e fatta propria dal PD in cui i germi di simile impostazione covavano da tempo – la norma che prevede un aggravamento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro allorquando un dipendente sia stato contagiato da Covid.

Qualsiasi studente del primo anno di giurisprudenza, che abbia superato l’esame di Istituzioni di diritto privato (e il Presidente del Consiglio è professore ordinario proprio in questa materia), conosce che uno dei presupposti  della responsabilità, che nella specie dovrebbe considerarsi contrattuale, resta l’imputabilità dell’evento dannoso; ma non si vede come nel caso di pandemia, quando cioè il virus può essere contratto anche fuori dai locali aziendali, detto evento possa essere imputato automaticamente al datore (il quale, invece, continuerà ad essere responsabile per la salubrità dei luoghi di lavoro, allorquando non vengano attuati i protocolli sanitari).

Sulla spinta dei pentastellati, alla quale il PD e quella strana creatura che resta Italia Viva hanno prestato consenso, nel decreto mancano norme sui lavori pubblici e sulle infrastrutture, tanto che non si rinviene nessuna misura a sostegno degli investimenti pubblici o per accompagnare le imprese che devono realizzarli.

Qualsiasi studente del primo anno di Economia ha avuto modo di apprendere nello studio dell’Economia politica (le recenti incursioni sul capitale delle medie imprese, mi induce a ritenere che anche il Presidente del Consiglio, forse, abbia dimenticato queste nozioni) che la politica di investimenti pubblici resta un elemento fondamentale del modello keynesiano di rilancio.

Va considerato che non con il “debito”, ma solo con il finanziamento dei “contratti” in opere, prestazioni di beni o di servizi può essere creato il volano per la ripresa (a tanto aggiungerei anche  il pagamento dei rilevanti debiti che le pubbliche amministrazioni hanno con centinaia di migliaia di imprese).

Venendo alla regolarizzazione degli immigrati e del lavoro nero in agricoltura (per carità di patria ometto ogni considerazione sull’impianto della norma), ricordo che, come è stato opportunamente denunciato dal Presidente nazionale della Coldiretti, i primi lavoratori regolarizzati saranno disponibili solo a settembre.

Ma i raccolti non possono aspettare i tempi lunghi della burocrazia. Non sarebbe, allora, stato più razionale ed efficiente ricorrere ai sistemi del voucher, per eliminare i previsti ritardi dell’Inps ?

Ferma restando la necessità di prevedere importanti contributi per famiglie e persone in difficoltà, non si può che fare della facile ironia sull’affermazione di mera propaganda “non lasceremo nessun cittadino privo di tutela”; sarei pronto a dare (io, che non sono un esperto nella materia) una lezione gratuita a qualche componente del governo, con riferimento a diverse “categorie” di persone rimaste prive di tutela (nonostante le roboanti dichiarazioni del Presidente dell’Inps, in sintonia con chi lo ha nominato).

Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, invece di prevedere l’obbligatorio impiego dei percettori nel settore agricolo, il decreto si limita a prorogare da 2 a 4 mesi la sospensione delle misure di condizionalità per i percettori del reddito (per i quali non si vede più alcun controllo sui presupposti di accesso e di godimento del beneficio), per cui questi ultimi non dovranno interloquire con i centri per l’impiego per eventuali offerte di lavoro (con la conseguenza che “pagheremo” a vuoto sia il reddito di cittadinanza che la retribuzione dei famosi navigators).

Il decreto fa riferimento al solo il lavoro agricolo (escludendo l’altro settore, quello dell’edilizia), affidando alla libera scelta del percettore del reddito di cittadinanza, di concludere o meno un contratto a tempo determinato di 30 giorni rinnovabili con datori di lavoro, senza subire la perdita o la riduzione del reddito. Non sarebbe, invece, stato più coerente escludere la facoltatività, e prevedere l’obbligatorietà dell’impiego nel settore agricolo ?

Quale percettore del comodo reddito di cittadinanza vorrà, di propria iniziativa, impegnarsi in un lavoro faticoso come quello in agricoltura ?  La realtà è che il reddito di cittadinanza resta una misura assistenziale, dalla chiara valenza politica, in assenza di qualsiasi impatto sul mercato del lavoro.

Giuseppe Fauceglia 

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