Il mondo è quello prossimo del Mediterraneo, il ridotto di casa, e non solo per la spiaggia dove speriamo di andare anche bendati. Gira così vorticosamente che rischia di sbalzarci dalla giostra, solo il tonfo della caduta ci risveglierà dal torpore televisivo. Stiamo perdendo l’intelligenza delle cose.
Partiamo dal caso più lontano geograficamente quanto emotivamente vicino. Dopo tre elezioni in un anno, a Gerusalemme si costituisce il governo di coalizione fra il partito del Premier uscente, e confermato, e quello del rivale nelle campagne elettorali e ora candidato alla staffetta. Fra i propositi del governo Netanyahu – Gantz, resta da vedere se nel suo insieme o con qualche voce critica, è l’annessione della parte della Valle del Giordano a forte insediamento ebraico, così da sottrarla formalmente all’amministrazione palestinese.
L’annessione sarebbe parte del piano del secolo lanciato da Washington nel 2019, andrebbe realizzato in tempo perché il Presidente lo presenti come un successo di politica estera. La pace in Medio Oriente è il cruccio di qualsiasi Presidente a fine mandato, Trump non è da meno, alla ricerca com’è di un risultato positivo a fronte delle cadute in politica interna.
La Rete Fox, a lui vicina, maliziosamente prevede che il probabile candidato democratico lo supera nei sondaggi di circa 8 punti. Un ribaltamento delle posizioni rispetto a prima del COVID, a significare quanto la gestione della crisi sanitaria e occupazionale pesi sull’Amministrazione in carica.
L’Autorità Palestinese minaccia di denunciare gli accordi di sicurezza con Israele e di ridurre ai minimi termini i rapporti con la “potenza occupante” per imputarle i comportamenti in violazione delle norme internazionali in materia di occupazione. Gli accordi di Oslo e Parigi dei primi Novanta sarebbero così cancellati anche negli ultimi residui.
In altri tempi l’opinione pubblica avrebbe reagito, pro o contro non rileva, ad un fatto di potenziale gravità, ora tace in Parlamento e nei salotti televisivi, persino negli interstizi fra un servizio sulla movida e un quiz.
In Libia si annuncia lo spiegamento di caccia russi al fianco di Haftar per cercare di ribaltare le sorti dell’infelice offensiva di conquista del paese. Dall’altra parte della barricata la Turchia intensifica lo sforzo militare a favore di Serraj, nell’immediato sfrutta la posizione per vantaggi nelle prospezioni petrolifere in acque contese. Sullo sfondo si muovono emiratini, qatarini, egiziani, sauditi. Una convergenza nella divergenza di potenze musulmane che giocano in Libia la partita della supremazia, avendo la Russia a arbitro.
La Libia è tradizionalmente “nostra”, non fosse per gli idrocarburi che estraiamo e importiamo e per la missione europea Irini (Eunavformed) di cui abbiamo il comando. Eppure di Libia si parla poco, salvo per i messaggi nella bottiglia degli ex Capi di Stato Maggiore, i soli che, avendo studiato la polemologia, hanno la sensibilità per la guerra alle porte.
Alla burocrazia in senso lato si addebita di rallentare la rinascita del paese. Ai burocrati va però riconosciuto che in tempi grami continuano “nella guardia al bidone”, come usava nel gergo delle caserme. I diplomatici nelle sedi a rischio come Mogadiscio e Tripoli, i militari a bordo delle navi che incrociano nel Mediterraneo, gli agenti in cerca di ostaggi da portare in salvo. I posti non sono battuti da imprenditori, intellettuali, politici, intrattenitori, leoni della tastiera. Da quelli “io sto a casa”.
Il silenzio sugli affari esteri andrebbe rotto. L’iperbole che siamo in guerra a causa del virus è, appunto, un’iperbole. Non lo è paventare che i conflitti nel Mediterraneo si riverberano sulle nostre comunità. E noi a misurare la distanza fra gli ombrelloni.
di Cosimo Risi