Tale norma – introdotta dalla legge di riforma della disciplina condominiale (l. n. 220/’12) – dispone che, in caso di attività che incidano “negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni”, l’amministratore o i condòmini, anche singolarmente, possano diffidare l’esecutore e chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la violazione pure mediante azioni giudiziarie. L’assemblea delibererà in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza di cui all’art. 1136, secondo comma, cod. civ.
Vale a dire con un quorum deliberativo, in prima e seconda convocazione, costituito da un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (fermo restando il quorum costitutivo formato – ai sensi dell’art. 1136, primo e terzo comma, cod. civ. – da tanti condòmini che rappresentino: in prima convocazione, la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell’edificio; in seconda convocazione, un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio).
In argomento c’è da osservare che la disposizione in questione nulla aggiunge a ciò che già prima della riforma si riteneva nella possibilità così dei condòmini come dell’amministratore.
In dottrina è stato, anzi, sottolineato come sia difficilmente comprensibile la suddetta previsione dell’obbligo per l’amministratore (a seguito di richiesta di un solo condòmino, in deroga al disposto dell’art. 66, primo comma, disp. att. cod. civ.) di convocare un’assemblea che deliberi sulle azioni giudiziarie da intraprendere a tutela della destinazione delle parti comuni quando, chi amministra, sarebbe comunque legittimato ad esperire tali azioni in base al combinato disposto degli artt. 1130, primo comma, n. 4, e 1131, primo comma, cod. civ. (vertendosi in tema di atti conservativi a tutela dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio).